Il campanile

 

                    E' bello, è maestoso il nostro campanile, unico nel suo genere nell'alta e verde Irpinia. potrebbe senz'altro essere preso a simbolo del paese, se si potesse accostare, per fama, ai celebri monumenti delle grandi metropoli: vedi il Colosseo a Roma e la Torre di Parigi. Mi meraviglia ancora la sua altezza, a distanza di tanti anni, quando lo ammirarono per la prima volta i miei occhi da bambino. L'ammirazione crebbe proporzionalmente all'età. E qui entrano in ballo le nostre fionde artigianali: forcella d'albero, ritagli di gomme d'auto per le molle da lancio, pezzo di vecchia tomaia per la cocca. infatti era nostra massima aspirazione poter lanciare la pietruzza oltre la cima del campanile, al quale guardavamo, per via del parafulmine, durante i furiosi temporali di primavera. Anche noi piccoli, come i nostri vecchi, invocavamo santa barbara segnandoci sulla fronte e sul petto come al momento che precede la lettura del vangelo.

                    Altro diversivo di quei tempi consisteva nel prendere a bersaglio le campane dell'orologio o i vicini bronzi della cattedrale. Da una stanza del palazzo Ebreo io, Amato Della vecchia, e don Antonio, gareggiavamo nel trarre un tintinnio della campana mezzana che avevamo proprio di fronte. se il, colpo riuscito riempiva noi di infantile gioia, la cosa, in corrispondenza, destava meraviglia nei passanti, che all'improvviso sentivano piovere dall'alto quelle note argentine. I passerotti, per loro fortuna e nostro scorno, costituivano un bersaglio mobile e minuto.

                    Il campanile ci attirò anche da grandi. Entusiasmava i giovani inerpicarsi attraverso la buia giravolta delle scale sino al piano delle campane, specie quando nel pomeriggio delle vigilie e nella mattina dei giorni festivi bisognava suonare  "a gloria", cioè a distesa. Un intervento del genere si invocava, allorché l'avvicinarsi dei paurosi temporali estivi minacciava il raccolto, tanto sudato, nei campi biondeggianti di spighe. Per corollario diremo che alle ragazze era concesso il privilegio dello scampanio solo una volta all'anno, precisamente il 21 gennaio, festa di Sant'Agnese.

                    Ero un ragazzino e credetti ogni parola di quello che narrava  un compagno d'infanzia, il quale, pur aggiungendo liberamente sul binario della fantasia, aveva appreso da altri la terribile vicenda in cui si trovarono coinvolti, così in tutt'uno, paese e campanile.

                    Un giorno -diceva il piccolo narratore- il nostro primo protettore, santo Stefano, ebbe a lagnarsi con nostro Signore della condotta dei Nuscani: tutti, proprio tutti. Le pecorelle, vale a dire i cristiani, erano diventate caproni indiavolati, che avevano trasformato l'ovile in un covo di lupi rapaci. Pochissimi ormai si recavano in chiesa per le funzioni religiose; invano perciò le campane diffondevano nell'aria "la voce di Dio" che invitata al raccoglimento e alla preghiera. Le condizioni economiche della gente non erano rosee, è vero, ma neppure tali da giustificare una condotta che aveva a pesare tanto sul destino ultimo dell'anima. il primo martire della cristianità, Stefano appunto, richiedeva un autorevole intervento dell'Eterno Padre perché si ristabilissero le cose nella piccola comunità cristiana di Nusco. Quando la relazione fu terminata, il Signore, che aveva ascoltato tutto con grande tristezza, affidò a Stefano ogni iniziativa sui tempi e sui modi del celeste intervento. ma, prima di prendere qualsiasi decisione, parve bene al nostro protettore di scendere dalla splendente corona dei martiri alla cerchia dei santi vescovi, ove raggiava il primo pastore della chiesa nuscana, Amato Landone. Era proprio giusto che con lui, riconosciuto come comprotettore di Nusco, si concertasse l'azione che richiamasse all'ovile le pecorelle smarrite. Non ci volle molto perché nel cielo e tra i due santi si raggiungesse un accordo: ad entrambi poi stavano a cuore le sorti di quel popolo che conservava nel profondo i germi della umana bontà.

                    E così fu preso di mira il campanile, quell'opera grandiosa, quel gigantesco complesso di pietra viva, che empiva di orgoglio, anche allora, gli abitanti del piccolo paese. Occorreva spaventarli soltanto, colpire le cose, non gli uomini, sommuovere gli animi e impressionare le menti.  Dell'operazione si incaricò Stefano che l'aveva ideata, lui che stringeva nella mano la pietra, a ricordo di quelle che in Gerusalemme lo colpirono a morte per la testimonianza di Gesù Salvatore.

                    Anche quell'anno, il 26 dicembre fu trascorso  dai Nuscani come un giorno qualunque: nessuna onoranza fu tributata al santo patrono di cui ricorreva la festività. Intanto già nella mattinata le condizioni del tempo si volsero al peggio: un vento impetuoso, levatosi da nord-est, mugolò orrendamente sul paese una coltre di nubi che oscurarono cielo e terra. Paurosi lampi precedevano di pochi secondi lo scoppio di tuoni che echeggiavano sinistramente giù nelle valli. A notte, caduto il vento e cessati i boati, sembrò che tutto ridiventasse normale; il cielo si sgombrò facendo palpitare una miriade di punti luminosi. Fu verso la mezzanotte che si sentì un improvviso fragore, in tutto simile a quello che accompagna la propagazione di un sisma del decimo grado. In pochissimo tempo rotolarono a terra con una rovina paurosa i blocchi del campanile, che venne a trovarsi decapitato, anzi dimezzato. Non un fulmine, né una tromba d'aria, né un terremoto aveva provocato il disastro. A ferire l'orgoglio dei Nuscani, a colpire il maestoso campanile era stata una pietra piovuta dal cielo, di proporzioni così piccole che non fu possibile individuarla. Eppure, tranne lo spavento e il fuggi e la veglia angosciosa in attesa dell'alba, non si ebbe a lamentare nessun danno alle persone e alle case circostanti. Si gridò subito al miracolo, e con piena ragione. Dal vescovo del tempo, attorno al quale s'era radunato tutto il popolo, fu detto che quell'evento era un severo monito del cielo per una generale riconversione e un ritorno immediato all'osservanza dei precetti del Vangelo e della Santa Chiesa.

                    Per questo -diceva a me il piccolo narratore- santo Stefano porta nella mano una pietra: a ricordo di quel portento che aveva, con un taglio netto, ridotto a meno ardite proporzioni l'altezza del nostro meraviglioso campanile.

                                                                          Prof. Michele Della Vecchia

da "La Voce di S. Amato"

Mensile di attualità e cultura

a cura del Comitato IX

Centenario della Morte di S.Amato

    ANNO II  N. 1