Nusco al centro del mondo...anzi lontanissima

 

                                        Lassù in alto esisteva una volta, più di mille anni fa, un mirabile castello longobardo, una fortezza eretta di proposito sul picco più alto del luogo, a difesa dell'intero territorio. Il paesino restava poco più sotto e aveva un profilo inerte e sornione, a volte anche scontato. Le sue strettoie erano anguste e dissestate, i caseggiati con l'intonaco scrostato, i tetti con­sunti e obsoleti; al contrario risaltava la pietra viva dei portoncini, lavorata da mani sapienti, che dava il lustro a tutto l'ambiente; così come pure le scalinate esterne, che si distinguevano per il loro stile sobrio.

                                        Era Nusco un luogo discosto e silente, un ambiente umile e riservato, che, a prima vista, poteva anche apparire dimesso e austero insieme.

                                        Sui ruderi dell'antico maniero ho consumato gran parte della mia adolescenza, in special modo dai dodici ai sedici anni. Io ero un "cane sciolto", uno che non aveva né vincoli né regole. Approfittando di un certo "lassismo" da parte dei miei, che non si prendevano di sicuro la briga di effettuare un controllo delle mie attività giornaliere, impegnati com'erano nella difficile lotta per la sopravvivenza, facevo il bello e cattivo tempo. Insieme a una decina di miei fedeli compagni, anch'essi nelle mie stesse condizioni, partivo presto e rientravo la sera tardi, spesso fuori tempo massimo, così perdevo anche la possibilità di mangiare un boccone. Le mie rimostranze non intenerivano nessuno, davano solo luogo a qualche ghigno di soddisfazione...

                                        Il campetto di calcio che noi avevamo creato sullo spiazzo all'interno del "castello", era divenuto il mio "salotto", vivevo lì, passavo lì le mie giornate. Per il calcio davo l'anima, fino a sfiancarmi, a debilitarmi. Il miraggio della gloria sportiva mi spingeva a quei turni massacranti.

                                        A Nusco correva voce che i residui del castello nascondessero preziosi cimeli e veri e propri tesori. Che diamine, qualcosa avevano pur lasciato i vari principi, i condottieri, le dame, i cortigiani, i paggi... Ed ecco che, ad orari fissi, partiva la nostra "ricerca": cunicoli esplorati con la massima diligenza, grosse pietre sollevate, nuove crepe aperte. Si procedeva senza sosta, con grande impegno e attenzione, nonostante i risultati fossero deludenti. Il nostro capo, Amato, il più sveglio di tutti, si infilava nelle fessure e ne usciva dopo venti o trenta minuti. Con una grande faccia tosta si permetteva di dire che "il duca" gli aveva chiesto il favore di fare silenzio, perché aveva voglia di dormire. Tutti ammutolivano; il capo incuteva rispetto poiché si sospettava che avesse a che fare con gli "spiriti"... La nostra credulità era pari alla sua sfacciataggine. La lusinga della libertà senza confini ci rendeva succubi delle più evidenti baggianate e non ci permetteva di discernere tra la realtà e la mistificazione. Tra abbagli e illusioni eravamo tutti soggiogati dall'ebbrezza di trascorrere i giorni nel più completo abbandono. Probabilmente era solo un modo come un altro per prolungare l'adolescenza, nel tentativo di guadagnare un rinvio delle nostre assunzioni di responsabilità. Molto meglio rifugiarsi nella chimera, nella magica sfera della fantasia. Notai di sfuggita che i ragazzi con un buon sostegno alle spalle non si facevano trascinare in un'avventura simile, come invece preferivamo fare noi del gruppo. Una sottolineatura di cui non seppi cogliere l'essenza, il significato autentico. Troppo impegnato!

                                        Da lassù mi sentivo padrone del "mondo", anzi devo dire che fu sempre una mia audace pretesa quella di considerare Nusco al "centro del mondo". Una percezione dovuta alla non conoscenza e all'immodestia. È proprio degli ultimi, dei derelitti aspirare alla "grandezza", al riscatto, cercando il percorso più breve, senza badare alla sostanza delle cose. Il nostro era un microcosmo umano, un complicato intreccio di rapporti. Si era obbligati ad accettare le ragioni di tutti, senza che ciò comportasse un cambiamento delle gerarchie; queste ultime venivano fissate per "via naturale". I più forti, i più decisi si affermavano. Prevaleva sempre, nel gruppo, la componente "fantastica - giocosa", per questo "la recita" si protrasse per un bel po'.

                                        L'epilogo giunse inaspettato. Qualcuno si allontanò da Nusco, altri si stancarono di quella "pantomima", altri si arresero ai continui rimbrotti dei presenti. Restai il solo, imperterrito sognatore! Ma, poco più in là, anch'io presi atto che la "favola" era finita. Si esaurirono i vaneggiamenti, cessarono le finzioni. Il vecchio castello si rivelò per quello che in realtà era: un ammasso di rovine, a testimonianza della storia passata. Nusco, improvvisamente, mi apparve un modesto e sperduto paesino di montagna, sconosciuto e lontanissimo dal "centro del mondo", uno dei tanti villaggi sparsi per l'Alta Irpinia.

                                        Non mi restò che resistere; il disincanto prese il sopravvento. Dileguatesi le alchimie, cominciò un altro "gioco", un gioco più serio e più complicato. Sento, ancora oggi, che quella stagione trascorse via veloce, più veloce di quanto io desiderassi.

Varese, luglio 2001

   Angelo Pepe

da IL NUOVO SUD  anno XXI n. 4  Anno XXII n. 1 (89) Novembre 2001 - Marzo 2002