Il Malopasso
Confesso d’essere stato in apprensione per buona parte del viaggio, quando,
rimediato un passaggio in macchina, facevo ritorno ad Atripalda, di domenica
sera. Non ricordo quale correva degli anni ‘50.
Riaffioravano alla mente i ricordi dell’infanzia: sentivo allora raccontare le
imprese banditesche compiute nei tornanti a collo d’oca del Malepasso e in
quelli meno celebri di Ponteromito.
Zio Ferdinando Gambale, fratello della nonna Maria Felicia, spaccone come tutti
i Montemaranesi, trainiere e taverniere, gran lavoratore e galantuomo, aveva
anche lui la sua brava storia da raccontare. Per salvare il prezioso carico che
trasportava, dimostrando un sangue freddo fuori del comune, la sparò grossa
dicendo ai malviventi che era il fratello di un famoso capobanda, il cui nome in
certi ambienti riscuoteva il più grande rispetto.
Di quel tale mia madre, che mi riferiva il fatto, ricordava anche il nome.
Da ragazzo sentivo spesso le gesta dei grassatori che non sempre aspettavano le
ombre della sera per assaltare, in quelle curve a strettissime raggio, carrozze,
traini, camion e macchine. Là non occorrevano neanche tronchi e pietroni per
arrestare la marcia dei mezzi veloci.
Facevano accapponare la pelle a noi
piccoli le narrazioni di sparatorie tra banditi e carabinieri, nascosti sotto
tendoni tra casse e sacchi. Anche di un autista meccanico di Nusco, Raffaele
Giordano, si narrava un’avventura mozzafiato.
Per incauta opera meritoria aveva preso a bordo due suore che, osservate in
seguito allo specchio retrovisore, fecero intendere chiaramente di non aver
nulla a che fare con l’ordine delle francescane. Filuccio - raccontavano - non
si perse d’animo: finse di essere in panne, scese, aprì il cofano, armeggiò,
quindi chiese una piccola spinta. I due camuffati rimasero con un palmo di naso,
quando il nostro, consumato chauffeur, mise in moto e filò via a tutto gas.
Le recenti imprese compiute nel dopoguerra avevano riportato alla cronaca e
rinfrescato la fama della strada del Malepasso (tra Parolise e Volturara) che a
quei tempi era disertata nelle ore in cui è d’obbligo accendere le luci di
posizione.
Quell’estate la famiglia Capaldo aveva rotto gl’indugi: cedeva finalmente
agli elogi che sempre avevo tessuto del paese: il cielo, l’ospitalità, la
tranquillità, la modicità dei prezzi, tutto insomma concorreva a rendere
piacevoli i mesi che lassù sono i più belli dell’anno: luglio e agosto. E
così don Antonio portò nella terra di Sant’Antonio la numerosa famiglia,
riconoscendo al primo impatto che l’aspettativa non era andata delusa. La
sistemazione, dato il numero dei nuovi villeggianti, avvenne in due plessi poco
distanti tra loro.
Da allora è passato tanto tempo che a stento ricordo qualche particolare della
villeggiatura della famiglia Capaldo in terra nuscana. Fu la buona Pasqualina,
mia suocera, che si incaricò di ovviare all’esaurimento della bombola di gas
- di domenica - continuando in casa sua la cottura dei maccheroni iniziata nella
casa vicina.
Neanche di Pellegrino e Livia, miei alunni nella scuola media di Atripalda,
riesco a rintracciare in un angolo della memoria un fatto, un gesto, una parola
che ricordi il soggiorno nuscano. Ricordo bene invece che alla mezzanotte di
Natale lui e i fratelli mi spaventavano tanto con il lancio delle botte a muro,
mentre si andava alla chiesa di S.Pasquale; che mi faceva sussultare la prima
volta che, fresco di patente, attraversava a velocità supersonica la vecchia
strada delle “Tufarole”; che a tavola il padre si rivolgeva a lui, ancora
studentello, per avere il parere su ogni ordine di questioni.
Qui, in tema di ricordi, mi piace accennare alla dolce e buona Maria, occhi
grandi e capelli ondulati nerissimi, che per tre anni frequentò per ripetizioni
la mia casa di Via Cammarota; che, giovanissima sposa e madre, portò per la
prima volta il lutto in famiglia, assai prima della nonna Livia, la madre di don
Antonio e di Mario e di Zietta, la longeva signora che con orgoglio e
compiacimento mi mostrava alla vita la chiave della dispensa, tanto necessaria
contro “ladroni e lupi”.
Don Antonio trascorreva a Nusco soltanto la giornata della domenica, giacché l’attività industriale e commerciale della sua ditta non aveva soste nel
corso dell’anno. Lo stesso toccava a me che, dal lunedì al sabato, ero
visitato da una ventina di alunni per le preparazioni estive. Il viaggio di
ritorno si faceva insieme, la domenica sera, a bordo di un’Appia dalle forme
aggraziate come quelle di una ragazzetta. La prima volta mi parve opportuno
fargli presente che non era prudente attraversare a quell’ora la tristemente
celebre via del malepasso. Don Antonio sorrideva e non rispondeva, come se non
avesse sentito le mie parole, quasi per farmi aggiungere qualche cosa che
tendesse a incutere timore. La mia preoccupazione scaturiva dalla commisurazione
delle mie possibilità economiche con le richieste dei malviventi, oggi
malavitosi, che allora solevano appioppare pesanti carezze manesche agli incauti
che osavano viaggiare senza molto denaro. Quando la parola manifestava i miei
occulti pensieri, don Antonio continuava a sorridere e guidava con assoluta
padronanza; poi, traducendo in suoni l’interna calma olimpica, che sapeva un
po’ di paterno rimprovero, mi diceva che non c’era da preoccuparsi. Aveva
lui, per entrambi, sufficienti mezzi per appagare le richieste dei grassatori ed
evitare quelle temute carezze.
Non si trattava certo di una panzana, del tipo di quella dello zio Ferdinando di
Ponteromito. Don Antonio era il presidente della Camera di Commercio e titolare
di una ditta nota dentro e fuori dei confini della provincia.
L’immenso
magazzino, lavorazione del vetro, la fabbrica degli specchi davano lavoro a buon
numero di operai.
Il sorriso, la calma e le parole del guidatore valsero a bandire dal mio animo
ogni motivo di ansia, su cui certo gravavano le storie udite negli anni della
fanciullezza.
Non avemmo brutti incontri nelle cinque domeniche che viaggiammo insieme da
Nusco ad Atripalda; ed io, ciò che importa ancor più, mi sentii sicuro e
tranquillo, prima e dopo le Tavernole, sul soffice sedile dell’Appia, al
fianco di don Antonio. Il Malepasso è stato un pretesto per ricordare
quell’ottimo padre di famiglia, quell’infaticabile dirigente d’azienda,
quel cittadino esemplare del quale godo aver meritato stima ed amicizia.
Prof. Michele Della Vecchia