Le scale
Voi subito penserete alle due parallele di legno tenute insieme da un certo
numero di pioli. C'erano anche quelle che, durante il lungo inverno, dormivano
coricate nei cortili e negli orti. Il primato della lunghezza apparteneva a
Michele Contino, al cui portone andavamo in frotta noi ragazzi, quando la palla
non rotolava giù dai tetti. Non sono queste le scale di cui intendiamo parlare,
ma altre, tanto diverse e così leggere da portare.
Rievocando i tempi lontani della sua fanciullezza in Montemarano, mia madre ci
presentava un quadro quanto mai desolante degli ultimi decenni del secolo.
Miseria, crisi, tempi tristi: erano queste le parole più ricorrenti nel suo
discorso. Il nonno Giuseppe, che si serviva della suola per scrivere e insegnare
un pò di aritmetica ai piccoli, a Natale concedeva libero accesso al pane. E
per meravigliarci ancora, mamma aggiungeva che lei, ragazzina di otto anni,
usciva incontro la mattina alle contadine che salivano a vendere la frutta in
paese; essa le aiutava a portare in testa i canestri perché prendessero a nolo
in piazza la bilancia di famiglia. Maritata a Nusco a un umile artigiano come il
padre, conobbe tuttavia un pò di benessere, grazie alla gestione di un
caffeuccio annesso al Sali e tabacchi che il nonno Vincenzo, lo zoppo, aveva
ricevuto a compenso d'una gamba perduta nella lotta contro il brigantaggio nel
Sud.
Torniamo dunque alle scale, non a quelle, ripeto, dei muratori o dei contadini,
specie alla fine della settimana. I capelli e la barba lunga, riguardati con
spregio, erano segno di lutto o di estrema miseria. Le maestre vedevano di mal
occhio la zazzera al collo dei ragazzi e non soltanto perché offrisse ospitalità
e pascolo a odiosi parassiti.
Il guaio era che non tutti trovavano i quattro soldi da portare a Gennarino
Biancaniello, calzolaio, barbiere e cabalista. E allora? Allora avveniva che
qualche malcapitato ragazzetto finisse sotto le forbici comuni manovrate da mani
inesperte e comparisse in piazza ai nostri giochi con la testa rapata in
famiglia. Il disastro era visibile a grande distanza e suscitava immediatamente
l'ilarità e la crudeltà dei monelli, nelle cui file purtroppo ho militato
anch'io.
"Le scale! Le scale!" era il grido che prorompeva da cento gole
all'indirizzo del poverino al quale la madre aveva fatto da barbiere. Il guaio
era sempre attribuito alle mani materne. Sul capo dell'innocente, bersagliato
senza misericordia, comparivano tante strisce zebrate che richiamavano
stranamente la immagine delle scale. Preciso che il cuoio capelluto era rasato a
zero. Al nostro compagno non rimaneva che darsela
a gambe per la vergogna e scomparire per un pò di tempo, quanto bastasse per
una nuova peluria che annullasse le tracce del guasto perpetrato in famiglia.
"Le scale! Le scale! " mi par di sentire oggi a tanti anni di
distanza il grido con cui si umiliava crudelmente il nostro compagno, che se ne
tornava a casa non certo per rimproverare i responsabili della sua disavventura.
Allora i figli accettavano senza protesta la giacchettina rivoltata, il
razionamento del pane e la scala tonsoria.
Michele Della Vecchia