Il Cavaliere in rosso

                                        Era il tardo pomeriggio di uno degli ultimi giorni di ottobre, tanti anni or sono. La giornata era stata splendida: non un filo di vento. Un tiepido sole aveva rallegrato il lavoro dei contadini, intenti alla semina o alla vendemmia.

                                        Dal villaggio erano partiti i ragazzini più poveri, diretti ai piedi del "montagnone", per raccogliere le castagne. Lo ricordo bene: in cammino ben presto, prima dell'alba, e un tozzo di pane nella tasca della giacca. Ero riuscito a riempirne uno zainetto. E per l'angusta viottola che si inerpicava fino alle prime ca­se del borgo, lungo ripidi pendii, avevo molto faticato: il carico era divenuto via via più pesante. In compenso, la gioia di mia madre, al rientro, mi aveva ripagato dello sforzo. Almeno per quel giorno, la cena era assicurata... Si avvicinava l'ora del crepuscolo.

                                        I tetti delle vecchie case di Nusco assumevano, al calar delle prime ombre, uno strano colore bruno. Di lì a poco, i mesti rintocchi delle campane della "chiesa grande" avrebbero annunciato la fine del giorno.

                                        Nel vicoletto dietro S. Maria Vetere, dove in una misera stanzetta abitava mia nonna, s'erano radunate quattro o cinque anziane donne. Si apprestavano a recitare il rosario. Io ero appena adolescente. Me ne stavo seduto in un cantuccio, in attesa delle loro cantilene. Mia nonna Maria aveva avuto una vita colma di stenti e di vicissitudini. Ma ciò che la rendeva diversa dalle altre, almeno ai miei occhi, era la sua completa cecità. Raccontava di una grigia nebbiolina che le aveforme e i colori delle cose, sin dalla prima adolescenza. Poi, man mano, tutto era diventato più scuro, fino al buio più assoluto.

                                        Ora, nella vecchiaia, sentiva il bisogno di avere una persona accanto, specie di notte. Aveva perciò sistemato un lettuccio a fianco al suo, così le facevo compagnia.

                                        Vedevo in lei uno di quei misteriosi e antichi per­onaggi che leggevo nelle favole. Ma ciò che più mi sorprendeva, e ancora oggi non riesco a spiegarmelo, era la sua capacità di riconoscere il ticchettio dei miei passi, anche quando correvo in compagnia di un gruppetto di coetanei ...... Questo è Angelo" - diceva.

                                        - "Ma no, è Michele" - rispondevano in coro i miei amichetti, tentando di contraddirla.

                                        - "Adesso vi prendo a bastonate, così viene fuori la verità" - ribatteva decisa.

                                        Ho bene impresse nella mente quasi tutte le storielle che mi narrava, nelle lunghe e rigide giornate invernali. Avventure che colpivano la mia fantasia, e che lei si dilettava a rendere più complicate, con una sorta di compiacimento.

                                        Dunque, quella sera, finito il rosario, prese a raccontare.

                                        La scena si era svolta, anzi era cominciata, nel sentiero che da "dietro le mura" conduceva alla vetusta chiesetta di S. Antonio, poco distante dai ruderi dell'antico castello medievale.

                                        Lei, ancora bambina, era insieme alla madre: stavano rientrando dai campi, una sera sul tardi. La madre vide venire loro incontro un uomo alto e austero, vestito di rosso. Si trattava forse di un famoso "cavaliere" che, a detta di molti, improvvisava delle "uscite" dai ruderi del castello; dopo una passeggiata per i luoghi circostanti, spariva nel nulla...

                                        La madre istintivamente strinse la figlia a sé, per proteggerla. Ma "l'uomo in rosso", nell'occasione, volle essere gentile: le afferrò e, volando sui tetti, le adagiò proprio davanti alla loro casa, distante cinquecento metri circa. Un attimo dopo sparì.

                                        A detta della nonna, il "cavaliere" aveva voluto dare un aiuto a due persone molto stanche. E lo diceva con le lacrime agli occhi. Alle mie sollecitazioni sul perché di quel "gesto umanitario", lei non diede spiegazioni: il "fatto" era successo proprio così. Le donne presenti, con un cenno di assenso, confermarono. Presi sonno tardi, quella notte.

                                        A mia nonna non potevo non credere. E allora mi venivano alla mente le innumerevoli volte che mi ero trattenuto in quel sentiero, a giocare con i miei compagni, anche dopo che era calata l'oscurità.

                                        Riflettevo: «II "fantasma" ci avrebbe "trasportati" nelle valli o sui monti? Un errore sarebbe stato sempre possibile... E come avrebbe fatto a riconoscere le case di ognuno di noi?»

                                        Il tormento era grande. Per qualche tempo mi portai dietro la paura ed evitai accuratamente quei luoghi. Non so se esista ancora il sentiero, e se nei ruderi del castello si annidi tuttora il volenteroso "cavaliere"; immagino tuttavia che nessuno, oggi, abbia timore di frequentare quella zona, anche di notte. E se a qualche nonna venisse in mente di raccontare una versione aggiornata di quella storia, il risultato sarebbe, penso, un po' diverso...

Varese, novembre 1991

     Angelo Pepe

da IL NUOVO SUD AnnoXI n.6 Novembre - Dicembre 2001