Il Novissimo
Antonio di Carmela, un giovanottino del vicinato di via Moscatelli, raccoglitore
di legna secca alla montagna, aveva l'abilità di far accapponare la pelle ai
ragazzetti di sette od otto anni come me, verso la fine degli anni venti. Ci
aveva gusto a vederci seduti in corona attorno a lui, quando si abbandonava ai
racconti in cui superstizione e fede formavano uno strano miscuglio. E li
esponeva con voce rotta e cavernosa che accellerava uniformemente il nostro
battito cardiaco. Se si andava "dietro le mura" e un vento d'autunno
gelido e forte soffiava da nord-est investendo i glicini e i sambuchi, aveva
pronta per noi la spiegazione del fenomeno. Il sibilo delle raffiche, lo
stormire sofferto delle fronde erano senz'altro opera del demonio che, in
combutta con borea, scatenava sulle povere piante il tormento della sua
dannazione. Noi ascoltavamo in silenzio e guardavamo sbigottiti gli esili
alberelli sui quali si avventava, con urli e gemiti quasi umani, la furia
devastatrice del principe dell'inferno. E ci serravamo a lui, ad Antonio di
Carmela, che continuava a dire, quasi a cercar rifugio; e ci portavamo a ridosso
del muro dell'orto delle monache per essere il più possibile fuori dei vortici
che, deviando verso la ripa, rotolavano furiosi giù per la scarpata.
Ora siamo in un pomeriggio infuocato d'estate: si sta seduti su quelle lunghe e
levigate pietre che fanno da gradinata e soglia alle porte delle case. Il
narratore ci parla questa volta dell'aldilà, del destino ultimo dell'anima che
intraprende il viaggio verso i regni del tempo senza fine. La pellegrina che si
dirige alle beati sedi del paradiso viene sottoposta a prove che sembrano al
limite delle possibilità umane. Per prima la poverina deve attraversare a piedi
nudi un vialone sconfinato irto di sassi aguzzi; giorni e giorni di cammino
fanno il paesaggio sempre più desolato e tormentato, là dove non c'è altro
che pietra e cielo in penombra.
E ciascuno di noi immagina se stesso in viaggio per quel sentiero impietoso,
scalzo, affannato, insanguinato. E il narratore continuava imperterrito
pregustando sadicamente la paura e il tremore che via via si dipingevano sui
nostri volti. Laggiù, in fondo al viaIone, nuovi affanni aspettano la stanca
viaggiatrice. Ecco dinanzi ai suoi occhi si stende una macchia di colore verde
scuro: un mare di spini. Nessuno di noi ha mai visto il mare, neanche il geniale
narratore, ma la fantasia è pronta a figurare uno spazio sconfinato. Un brivido
passa per le vene dei piccoli ascoltatori, che alla ricerca delle viole e delle
more hanno fatto esperienza di dumi e di rovi. Ma l'anima non può farsi
indietro e deve affrontare la seconda prova. Vi lascio immaginare in quali
condizioni arriva all'altro capo della macchia scura e pungente. All'ultima
fatica la poverina dovrà varcare una conca immensa colorata di rosso, un mare
di sangue. Ognuno di noi si porta con la fantasia sulla riva di quel mare
funesto e dispera di riuscire nella difficile impresa. Qualcuno si rassegna sin
d'ora: tornerà indietro e per un sentiero soleggiato e fiorito correrà alla
rovina eterna, al fuoco divoratore dell'inferno.
Michele Della Vecchia