Il Montagnone di Nusco

 

 

                                        Il sole picchiava forte, così forte che mi mancava il respiro, nella vallata della stazione, dove comincia l'erta della Macchia. Un supplizio. Era d'agosto, in pieno mezzogiorno, roba da lavori forzati. La mia mèta: il Montagnone. Oggi è facile raggiungerlo in auto, in una ventina di minuti è fatta, la strada è buona, asfaltata. Appena giungevo ai suoi piedi, nel castagneto, m'incamminavo lungo un sentiero strettissimo e ripido, con ai fianchi dirupi spaventosi.

                                        A proposito, una volta, misi un piede in fallo e volai per una decina di metri, salvato solo da un faggio, capitato lì per caso, provvidenziale. Quando mi rialzai lo baciai più volte, come si fa con un amico che non si vede da tanto tempo. Zitto e mosca, nessuno seppe niente. Escoriazioni varie, una costola incrinata; mi conveniva nascondere l'accaduto perché sarei stato irriso e, a casa mia, avrei rischiato di prendere qualche bastonata, per non essere stato "accorto" e tempestivo nell'evitare il "disastro". "Hai una costola malmessa - mi disse, anni dopo, un medico, non ricordo più dove - Cosa ti è successo?". "Niente, sarò nato così, è un difetto di natura ". A Nusco, noi del popolo eravamo fatti a questa maniera, tignosi e riservati fino all'eccesso, timorosi di far sapere le nostre "disgrazie"; era meglio soffrire in silenzio che propagandare i nostri mali. Un costume antico, una ritrosia dovuta all'abitudine e alla timidezza. Era meglio lavarli in casa i panni sporchi. Teoria sulla quale io non ero affatto d'accordo ma che accettavo per quieto vivere, per non discostarmi troppo dalle costumanze tradizionali. Soffrire in silenzio ti abituava al sacrificio.

                                        Dai tredici ai sedici anni il Montagnone era diventato la mia seconda casa e contribuiva in qualche modo all'economia familiare: legna, fragole, origano, latte dei pastori (il più delle volte mi veniva regalato da Salvatore, persona gentilissima; in cambio gli davo notizie di sua moglie e dei figli a Nusco), grano, castagne, ghiande, grano di miglio. All'inizio avevo accettato quel faticosissimo avanti e indietro, si trattava di chilometri a piedi su un terreno scosceso, perché costretto dagli eventi e, in fondo, non mi lamentavo troppo. Con il passar del tempo mi misi in testa che non poteva essere quella la mia vita. Gli altri a Nusco, i miei coetanei, tiravano avanti lo stesso, per di più giocavano a calcio sul campo sportivo vecchio, che io vedevo benissimo dal Montagnone. Ero l'unico a sottopormi a quegli sforzi per mangiare un boccone sicuro; l'unico o quasi.

                                        Giunsi sfinito alla "Piana del Vento", in quel focoso giorno di agosto. Ci vollero due ore al fresco per riprendermi, fiatavo a fatica. Seduto con Nusco sotto, Nusco che era il mio odio-amore; cominciai a prendere le distanze da quello che era stato il mio mondo, fino ad allora. Iniziò un lento processo di distacco, inconscio, disagevole. Andavo un po' controcorrente, contro natura. Detestare del tutto i valori in cui avevo creduto, no, non era possibile, ma un'acredine, un livore, questi sì, stavano crescendo in me.

                                        Non sapevo bene con chi prendermela; vedevo che era una vita squallida, maledetta, in un tempo in cui molte persone, della mia stessa risma, cominciavano ad arricchirsi in giro per il mondo. Il risentimento accrebbe nel tempo nel confronto di tutti e di nessuno. Covavo dentro, era dentro che rimuginavo. Quel giorno decisi l'addio alle "mie" stradine, ai luoghi in cui ero cresciuto. Ne trascorse di tempo prima che si attuasse il mio proposito, ma ci fu un avvio, un segnale forte.

                                        Col senno di poi mi risulta agevole disquisire sull'abbaglio che presi in quel frangente, polemizzare con me stesso per le ipotesi contorte e strane che modellavo in quel periodo. Adesso rimpiango il Montagnone, la sua aria, i suoi odori, i suoi colori. E la sua vista meravigliosa che ti faceva sentire al di sopra di tutto e di tutti, tanto da farti riflettere sulla miseria degli avvenimenti umani: da lassù, in solitudine, si ha la sensazione di essere al di fuori e al di là della realtà. Sempre col senno di poi, s'intende. Le cose cambiano, si evolvono, e ciò ché prima poteva sembrare un flagello si rivela tutt'altro. Bastano le albe e i tramonti vissuti lassù per ripagarmi della rabbia accumulata.

Varese, luglio 2002                                                                                                     

       Angelo Pepe

da IL NUOVO SUD AnnoXXII n.3 Luglio - Settembre 2002