IL
GIOCO DEL CANE
C'era
una volta la lira, ricercata e rispettata, divisa in venti quarti che avevano
il nome di soldi e corrispondevano in frazione a cinque centesimi.
Un
ragazzo che bussava denaro ai genitori diceva immancabilmente: "Papà,
dammi un soldo". Era il minimo che si potesse chiedere. "Non vale un
soldo" era l'espressione del massimo disprezzo, che trova il suo
corrispondente in latino. Vi faccio grazia della citazione, perché di questi
tempi...
Per
mettere su una lira, bisognava alzare un monticciuolo di monetine che a stento
si reggeva per la legge del baricentro. E per guadagnare una lira, bisognava
veramente sudare; i braccianti dell'alta Irpinia, che ha come centro Nusco,
dovevano sgobbare una giornata intera.
Sul
rovescio del soldino era effigiata una grossa spiga senza stelo; questo mi fa
ricordare che a quei tempi non si poteva fare scialo neppure di pane. In quasi
tutte le case le `palate" erano ben chiuse nei grossi stipi e nelle
cristalliere: il pane bisognava chiederlo, e non sempre le richieste venivano
prontamente esaudite. Mamma era solita raccontare a noi piccoli, "figli di
creta", che durante la sua infanzia, a Montemarano, il Natale si
distingueva dagli altri giorni, perché il padre, al momento del
"cenone", esclamava: "Ragazzi, oggi campo libero: pane a volontà".
Si meraviglieranno i miei venticinque (o son troppi?) giovani lettori,
eppure la cosa è purtroppo vera; né la fanciullezza di mia madre, nata nel
1878, hanno conosciuto la civiltà del benessere, la società dei consumi. Il
pane, caduto per terra, prima di essere addentato, veniva accostato alle labbra
per un patetico bacio.
Al
pomeriggio la merenda dei bambini e dei ragazzi era costituita di solo pane;
fungeva talvolta da companatico un filo d'olio irrorato con assoluta parsimonia.
Di tale ristrettezza erano a risentirne non soltanto i cristiani, ma anche i
numerosi cani randagi, di cui sempre una folta schiera popolava le strade e le
piazze.
Quando
si andava fuori, ognuno col suo prezioso pezzo tra le mani, cominciava un vero e
proprio corteggiamento da parte delle povere bestie che, con tanto d'occhi
languidi, ci seguivano nella speranza di buscare un boccone. Dati i tempi, non
si poteva essere generosi. Se volevano il boccone, dovevano meritarselo e
divertirci. Dunque uno stuolo di ragazzi si disponeva in circolo attorno a uno
dei nostri amici, intendo un cane, il quale teneva il muso allungato, proprio
per il giuoco. Il caporione, staccato un boccone, lo deponeva sul naso della
bestia, immobile al centro sino a un dato segnale. Nel gran silenzio che seguiva
quindi la seguente filastrocca, di cui pareva che l'animale afferrasse anche
il significato: "Alla guerra, alla guerra, poco pane e dormi in terra;
quando spara il cannone, statti fermo e non ti muovere: sci-ta-bu!". Le
esclamazioni
finali, urlate e sostenute all'unisono dal coro, avevano il compito di
spaventare il cane che, sollevando di colpo la testa, mandava per aria il
pezzetto di pane che cercava, indisturbato nel salto, di cogliere a volo in
bocca. Se falliva, eravamo noi a ruzzolare per terra e a impadronircene, per
ripetere. Assai raramente si andava oltre la seconda volta.
Così
ci si divertiva allora. Ed ora - si adatta per vari versi al caso - non riesco
proprio a trattenermi dalla citazione di una celebre esclamazione ciceroniana,
che conserva la sua carica anche in traduzione italiana: "O tempora! O
mores!".
Michele Della Vecchia