Don Gaetano

 

                        Alto, asciutto, capelli neri con scriminatura, baffetti lisci, don Gaetano era un tipo. Col servizio nell'arma e un viaggetto in America aveva messo su un gruzzolo che gli consentiva di vivere di rendita. Senza figli e con una buona massaia in casa, la cosa era più che possibile. Agli occhi dei popolino, che per tirare avanti doveva sudare settanta volte sette camicie, era diventato un signore e gli spettava il don, titolo che allora si usava con molta parsimonia. Non frequentava caffè e osterie, che potevano offrire l'unico passatempo della giornata. Puntualmente la domenica mattina entrava nel tabacchino per l'acquisto del pacchetto intero - distinzione anche questa - che gli durava tutta la settimana. Altra distinzione era costituita dalla passeggiata giornaliera, all'ora del vespro, al braccio della signora: dal centro alla periferia, due o tre volte.

                        Ricordo di avergli visto indosso due soli vestiti, l'invernale e l'estivo, e la cosa si può spiegare col fatto che lassù a Nusco l'inverno e l'estate saccheggiano impunemente lo spazio delle altre stagioni. "A la prim'acqua r'austu viernu a Nuscu" ammonisce un proverbio noto in tutta la provincia.

                        Borioso e presuntuoso come l'hidalgo di Lazzarino del Tormes, ma mite e pacifico come il don Abbondio del Manzoni, il nostro non ebbe mai a salire le scale della corte, che portavano diritto a casa del diavolo.

                        Unici amici di don Gaetano eravamo noi studenti che gli lanciavamo a distanza certi saluti risonanti che avevano il sicuro effetto di far comparire un luminoso sorriso sul volto del nostro. La risposta era immediata come un fulmine. Ai nostri "Buongiorno don Gaetano!" faceva eco non una ma ripetuti "Buongiorno!' , una serie sempre uguale e pronunziata con tale fretta ed emozione che alla fine si riducevano a tanti "Giorno, giorno, giorno!". Incontrare don Gaetano e trargli di bocca quel putiferio era diventata una malizia, uno spasso.

                        Con lui nel mezzo trascorrevamo noi studenti le lunghe e luminose mattinate d'estate nella villa comunale, dove platani e tigli offrivano un magnifico riparo contro il calore del sole. Partecipava proprio come uno di noi alle risate, ai discorsi, ai giochi: sentiva il valore e l'onore di essere a contatto con l'intellighenzia paesana. Tentavamo qualche volta di portarlo sul terreno scivoloso che avrebbe messo a nudo il livello elementare della sua cultura, ma egli stava guardingo come un cane alla punta. Solo una volta gli avvenne di mettere il piede in fallo avventurandosi a sentenziare che la Francia era il maggiore stato dell'Africa. Giacchè cercavamo di non mancargli di rispetto, mascheravamo abilmente la matta risata che l'inaspettata sentenza doveva suscitare in un coro di giovani scanzonati. Neanche ci capitò di sentirgli dire di qualcosa del suo passato: accenni del genere dovevano essere assolutamente tabù per lui che viveva tanto al di sopra della massa e così vicino all'area della cultura.

                        Talora gli giocavamo un tiro che oggi può sembrare un'autentica ragazzata. Conoscendo le sue abitudini e sapendo che ogni mattina, prima di far la comparsa alla villa, si spingeva sino alla piazza De Santis, ci appostavamo a coppie e a intervalli di una cinquantina di metri, per sentirgli ripetere più volte la risposta al nostro ossequio mattiniero. I primi due si piazzavano al portone del vescovado di dove mandavano un sonoro "Don Gaetano buongiorno!", al quale teneva dietro immediatamente e precipitosamente la risposta di "Giorno, giorno, giorno!". Passava oltre don Gaetano, ignaro e fiero di quelle matutinae salutationes, mentre un'altra coppia lo aspettava al varco all'imboccatura di Corso Umberto. Altro saluto, altra risposta. Ora sono quattro quelli che lo seguono a una certa distanza, per cogliere distintamente l'omaggio delle altre coppie di "bravi" che fingevano di trovarsi a passare per i punti dove erano fissati i successivi incontri. Perciò la cosa si ripeteva al negozio di Maivarosa, a piazza Natale, al cancello della villa. Per don Gaetano si ripete un trionfo, meglio del rialzo d'interesse sul piccolo capitale che ha all'ufficio postale. Nella villa non c'è quasi nessuno; è lui il primo ad entrare come colui che si accinge a tagliare un nastro. Una luce interna, oltre quella dei sole, danno splendore al volto sorridente. Tra due minuti il gruppo del franchi tiratori sarà lì.

                        La guerra ha mietuto tante vittime: sui campi di battaglia, per le strade e nelle case di paesi e città, seminati di bombe. La piazzaforte di Nusco s'ebbe la sua parte. Don Gaetano mantenne il suo capitale alla posta: fu questa la scheggia di granata che gli lacerò il cuore. Buongiorno, don Gaetano!

       

                                                                                Michele Della Vecchia

 

da IL NUOVO SUD  Periodico di Cultura e Informazione