Addio Commendatore
Caro Tonino, al momento di metter mano a questo scritto mi affiorano alla mente
le parole con cui si apre nel famoso dramma di Shakespeare il discorso di Marco
Antonio davanti alla salma del dittatore, ventitré volte trafitto dai pugnali
della congiura: “Io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo”. Come per dire
che sono qui per un ricordo di te che, scomparendo proprio nel giorno di Natale
del Signore, hai portato nella tomba un’istituzione del paese.
Te ne sei andato in silenzio, come in silenzio venisti il 17 gennaio
1911, psicologicamente prostrato alla notizia dell’amputazione: la qual cosa
avrebbe attaccato anche a te il nomignolo che il nonno Vincenzo meritò da una
fucilata brigantesca degli anni sessanta. Del secolo scorso, s’intende. E quel
silenzio contrasta con la tua voce forte tante volte echeggiata nel rettangolo
del vecchio campo sportivo, sul selciato della piazza De Sanctis, nel chiuso
dell’ex bar Italia. Eri tu l’istituzione, con le tue virtù e i tuoi
difetti, gli sproloqui dottrinali, le invettive ruggenti, le pratiche di vita
quotidiana che tanto ti hanno contraddistinto.
E cominciasti a distinguerti da ragazzo per i nomignoli - non uno ma tre - di
cui ti gratificarono i compagni dell’infanzia: Bardascia, Futusso, Fragola
rossa. E tu accettasti come le tirate d’orecchio all’onomastico, te le
tenesti quando a Nusco, con tante omonimie, cognome e nome si dimostravano
insufficienti ad individuare una persona. Ma in seguito ti ripagasti
abbondantemente coi figli e nipoti degli uomini della tua generazione: nessuno
usciva dal negozio senza aver subìto accoglienza a base di motteggi sulle
“glorie” familiari.
Quanto ci sarebbe da dire sul caffeuccio che tu battezzasti “dolce
sorgente”, il primo locale ad aprire le porte agli incerti chiarori
dell’alba, l’ultimo a chiuderle alle prime ore della notte. Mi domando in
quale negozio d’Italia ci avverrà di entrare e vedere caramelle e biscotti
etichettati con nomi tratti dalla mitologia, dalla storia, dalla letteratura,
insomma da ogni occasione di lettura del proprietario.
Quelle scritte variavano via via che nuovi personaggi venivano a colpire la tua
fantasia o nuove località salivano alla ribalta per risonanza di avvenimenti
sensazionali. Così Cleopatra e Medea fecero posto ad Ofelia e al padre Polonio,
Robespierre cedette il passo a Rasputin, il Titanic fu eclissato da Cap Canaveral. Il motto “baciami e fuggi” fu riservato ai pezzi più gustosi e
costosi, alle cioccolatine avvolte in carta argentata.
Ricordo di aver sentito da te celebri versi che poi avrei incontrato nei testi
scolastici del ginnasio e del liceo. “Morte sol mi darà fama e riposo”,
conclude un sonetto del Foscolo del quale negli ultimi tempi della tua vita,
quasi a sfida delle nera parca in aguato, avesti a citare i celebri versi altra
volta solennemente recitati: “Sol chi non lascia eredità d’affetti / Poca
gioia ha dell’urna”.
Spesso mi meravigliavi con la citazione sempre opportuna di motti e proverbi di
una lingua che sembrava affascinarti molto. “Ruit hora. Prima digestio fit in
ore. Rustica progenies semper villana fuit” appartengono alla lingua latina.
Se il tuo titolo di studio si fermò alla terza elementare, mi chiedo dove
andasti a pescare il roboante esordio della prima Catilinaria di Cicerone:
“Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?”. La fiamma
dell’ingegno e il desiderio del sapere ti avventurarono alla lettura di
riviste ed enciclopedie di medicina, acquistandoti un bagaglio di conoscenze
grazie alle quali ti rendesti utile nella cerchia dei familiari e degli amici.
Ti procurasti finanche una tenaglia di dentista la quale, per ben due volte,
ebbe a penetrare, senza anestesia, nella mia bocca per estirpare un malanno che
non dava requie.
Di tale spericolata pratica ne sapevano qualcosa anche loro, due tuoi grandi
amici, che vennero a supplicare il tuo intervento. Li citerò col loro bravo
nomignolo: Pietro marchese e Antonio cavatiello.
Non credo proprio che tu dicessi sciocchezze quel pomeriggio di tanti anni fa,
quando, fuori dall’orario di libero ingresso, venni a farti visita al
policlinico dei platani di Avellino. Trovai te e il dott. Mario Malzoni seduti
sui gradini di accesso alla corsia di degenza. Per due ore avevi dato un saggio
delle tue conoscenze nei vari campi della scienza medica al proprietario della
clinica che, nel ramo ginecologico, aveva fama di luminare.
Fosti anche il farmacista, non proprio autorizzato, del paese, quando alla fine
degli anni Trenta la spedizione delle ricette costringeva i Nuscani a far
ricorso ai paesi circonvicini. Medico, farmacista, dentista, infermiere, senza
lauree e diplomi, panettiere, tabaccaio, barista, ti rendesti utile ai nostri
concittadini, ai quali per tanti versi e in tante occasioni facesti del bene. Io
mi considero uno di quelli: la pergamena rilasciatami dall’Università di
Napoli, valga quel che si vuole, la devo in buona parte a te, che come un padre
mi seguisti e aiutasti sin dai banchi del ginnasio. Ultimo traguardo fu la
conquista, niente affatto ufficiale, del titolo di commendatore, in concorrenza
con quello dello zio Ruggiero, acquistato a suon di quattrini: fu come il tuo
quarto nomignolo ma carico, talora autenticamente, di suggestione onorifica.
Caro commendatore, proprio come Marco Antonio, mi sono lasciato prendere la mano e ho finito per fare un elogio, che vuole concludersi con una nota di pianto. Sulla strada del tuo non breve e doloroso calvario è passato per un momento, un solo tragico momento, Claudio, il figlio di Violetta, il dottore che stava portando al pieno splendore le speranze aurorali accese nella Università di Stoccolma. La sua vicenda terrena, umanamente triste nella sola conclusione, si è intrecciata alla tua quando, da Ferrara prima e da Roma poi, giunsero a Nusco le agghiaccianti notizie che portarono la costernazione nel cuore della generosa gente nuscana.
Addio Tonino, addio commendatore; mi aspetterai “All’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto”.
Prof. Michele Della Vecchia
Gennaio 1986