Ricordo di zio
Antonio
La data più lontana a cui può spingersi la mia memoria affonda in un rigido
autunno degli anni venti. Un gelido vento di tramontana costringeva mamma e le
sorelle a tenermi d’occhio, onde evitare che sgattaiolassi fuori con panni che
non andavano affatto d’accordo con le condizioni del tempo. Me ne stavo ritto
dietro la porta del negozio, in piazza De Sanctis, proprio col nasetto
schiacciato sui vetri, quando dal fondo del vicolo della cattedrale vidi sbucare
una banda di ragazzi che andavano ai rumorosi giochi della strada. Alla testa di
quel gruppo di monelli paesani era Antonio Delli Gatti, dalla cui bocca uscì il
grido che in questo momento sento echeggiare al mio orecchio: “Guagliù, iamu
ncoppa castiellu”.
A 18 anni Antonio era un giovanottone che saltuariamente lavorava, all’ombra
del padre, caposquadra telegrafico, nell’amministrazione postale. Fu a quel
tempo che, tornando tra i muri della scuola, al palazzo Teta, mi trovò nei
banchi delle elementari, quando per la prima volta fu istituita a Nusco la
quinta classe.
La bionda maestrina napoletana, Grazia Pizzolla, fresca fresca di nomina, avrà
di sicuro provato un certo imbarazzo a vedersi dinanzi alunni che non erano
anagraficamente molto lontani da lei. E zio Antonio (così a me piaceva e piace
chiamarlo con l’appellativo che stava bene in bocca alle mie figlie e sue
nipotine) si distingueva in matematica e storia. Quell’anno però non poté fare il reincontro con un eroe del mondo politico e militare romano, P. Cornelio
Scipione, dal quale gli era derivato nella scuola della terribile donna Costanza
il nomignolo di Scipione. L’anziana maestra, plagosa come il precettore di
Orazio, ebbe a ricordarsi a lungo di lui che, con la complicità di un altro
manigoldo, le giocò un tiro più che mancino. Infatti fu proprio il ragazzetto
Antonio Delli Gatti che, prevedendo con precisione millimetrica il futuro,
sistemò, tra camicetta e giacchettina, dietro le spalle di Giuseppe Lanzetta un
piatto di porcellana. Vi lascio immaginare come sbiancò in viso la severissima
donna Costanza, quando, accarezzando con la pesante bacchetta il groppone dei
due ragazzi, credette di averlo fracassato. Nel ‘34 Antonio fu militare di
leva a Roma da dove un giorno lo vidi comparire al collegio Regina Pacis di Lido
di Ostia. La sorpresa fu grande e in sommo grado gradita, giacché nell’arco
di due anni mi fu dato due sole volte di ricevere visite da parte di persona del
paese. Dopo di lui fu la volta del vecchio canonico Don Carmelo Chieffo, in
compagnia della prima nipote. Non so se a quel tempo Antonio corteggiasse mia
sorella Concetta, la quale volle rimanere fedele alla promessa e al primo amore,
resistendo alle pressioni dei familiari e alle profferte di un altro
pretendente. Ricordo anche di aver visto un giorno entrare Antonio nel
tabacchino proprio quando al bancone era Concettina; al momento di raccogliere
le tre moresche dalla pietra di marmo Romeo tentava di portarsi via anche le
mani di Giulietta, che ve le deponeva con tremore. Il romanticismo e l’amore
trionfarono e i due andarono all’altare con gran pompa; e poi il giro di nozze
con benedizione pontificia e sosta obbligata nella terra della laguna. Questo fu
alla fine della campagna d’Africa del 35, alla quale egli partecipò come
soldato di artiglieria, mentre il padre Giovanni, postelegrafonico militarizzato, non fece più ritorno dalle
lande abissine. Proprio come il padre,
forse prendendone addirittura il posto, entrò nell’amministrazione postale,
nella quale fu seguito dai fratelli minori, gli indimenticabili Amato e Michele,
il prigioniero degli inglesi, e in ultimo Maria.
Zio Antonio - chiamarlo così mi fa sentire più forte il vincolo d’affetto -
era un compagnone sempre pronto a fare e accettare inviti, giocare e subire
allegramente scherzi. L’esattore Varallo si vantò che a Nusco nessuno era
riuscito a fargliela sino al giorno in cui dal nostro gli fu sostituito nella
tasca del cappotto il chilo di salsicce con qualcosa che gli intestini
contenevano originariamente. Ogni anno voleva veder festeggiate solennemente le
date dell’8 dicembre e del 13 giugno; quest’ultima mi fa ricordare la villa
alla collina dei Cappuccini con il giardino ricoperto di verde e di fiori.
Bontà e generosità contraddistinguevano l’animo di lui anche nei rapporti
con i vicini, gli amici, i compagni di lavoro. Alla cima dei suoi pensieri, come
avviene per ogni buon padre, restava il benessere della famiglia, come
testimoniano le premure e i sacrifici sostenuti, unitariamente alla compagna,
per mandare i quattro figli all’Università, facendo assegnamento sul solo
piccolo stipendio. Ebbero e meritarono i due coniugi di vedere ripagate le loro
fatiche.
Nell’immediato dopoguerra zio Antonio fu manovratore del primo e ultimo
cinematografo di Nusco, gestito dalla famiglia Ebreo. Perciò accompagnava a
Napoli don Michele per la consegna e il prelievo delle pesanti pellicole
contenute nelle circolari custodie di metallo. Spesso i contrattempi li
costringevano a far tardi e a visitare qualche posto di ristoro. Così un giorno
si ritrovarono in un ristorante di lusso a piazza Carità, dove il
ragazzo-cameriere si permise di apporre davanti zio Antonio un piatto di
spaghetti tale da giustificare la metafora paesana dei quattro maccheroni. Il
guardafili dell’Alta Irpinia, abituato alle spase di lagane e fagioli e alle
fette di baccalà a zuppa grosse come le suole degli scarponi, non ebbe bisogno
che di due forchettate; dopo di che al premuroso ragazzo, richiamato con
signorile gentilezza, recitò con l’aria più scanzonata del mondo la frase
che fece arrossire il dottore in farmacia e ridere fragorosamente noialtri,
quando il fatto ci fu raccontato: “Giovanotto dì alla padrona che li può
cacciare”.
Il povero ragazzo non sapeva che le mamme una volta (lo fanno
ancora?) tiravano fuori dalla pentola un mestolino di pasta che, debitamente
condita nel piatto, veniva data in assaggio al più autorevole o al più
affamato membro della famiglia.
Se fosse qui lui a scrivere le sue memorie e si potesse rivolgere a un pubblico
di vecchie conoscenze, avrebbe a disposizione un lungo repertorio e manterrebbe
allegra numerosa brigata. Ho fatto il tentativo di prendere il suo posto, con
quanto risultato non so. Tuttavia voglio aggiungere un’altra perla del suo
repertorio per strappare un sorriso al paziente lettore. Dunque zio Antonio e
compagni erano alla fine di una sostanziosa cenetta in quel di Avellino, quando
un giovane si accostò alla tavola per informare che il fratello di Armando, la
forchetta più formidabile del gruppo, era passato a miglior vita. Lo sfortunato
collega con la pancia piena di solidi e di liquidi, fu accompagnato subito alla
casa del defunto, dove già compariva gente per la visita e la stretta di mano.
Fu qui che zio Antonio pronunziò la frase bisenso che molto a stento fece
trattenere uno scoppio di riso, oltre che ai compagni di cena, al diretto
interessato. Quando un amico qualunque si avvicinò ad Armando per manifestare
la sua solidarietà dicendo un qualsiasi “Capisco che cosa provi dentro”, a
zio Antonio non riuscì di rimandare indietro un pensiero occulto che voleva
prepotentemente tradursi in parole. Parlò al posto di Armando, che in verità
col fratello non aveva da tempo cordiali rapporti, parafrasando con trucco
diabolico la sentita espressione di condoglianza: “Lo so io che tiene in
corpo”.
Nelle circostanze difficili e dolorose della mia famiglia e di quelle dei suoi
numerosi parenti zio Antonio era il primo ad accorrere e a prestare
tangibilmente aiuto. Sapeva all’occorrenza essere elettricista, idraulico,
falegname; era per noi, trapiantati in Avellino e privi di amicizie, come un
faro per i naviganti, in sereno e in tempesta. Un poco anche per questo abbiamo
pianto la sua scomparsa, che ha lasciato in noi un vuoto incolmabile. Il che mi
piace ribadire con espressione che spesso ho trovato nei temi dei miei ragazzi a
scuola; ci mancherà tanto.
Ho inteso con questa pagina rendere omaggio a un uomo che spese la vita nella
dedizione al lavoro, che fece realmente dono di sé nell’ambito della
famiglia, che coltivò al limite estremo i vincoli dell’amicizia né venne mai
meno alle leggi della convivenza civile. Nel secondo anniversario della sua
dipartita, mentre il tempo non ha ancora sanato il duolo che fu dei primi
giorni, sull’ultima riga del foglio che mi sta davanti, humidus cilia lacrimis,
rinnovo e vergo l’estremo saluto con le parole dei miei ragazzi nel compito di
scuola: “Zio Antonio, ci mancherai tanto”.
Prof. Michele Della Vecchia
Dicembre 1986