Giuseppe Iuliano, Voli e nuvoli


 

 

"La nostra terra è un libro scritto/ di molte pagine slegate/-dispense di università di strada-/ che raccontano storie amare/ d'amore crocifìsso."- Questo è l'incipit di una poesia di Voli e nuvoli, Oasi: a me è parsa una dichiarazione disarmante, nascosta tra i versi, quasi alla fine della raccolta. Il poeta stabilisce un'intima connessione tra terra-vita-poesia.


Un poeta è ciò che scrive, perché ciò che scrive è ciò che vive. Giuseppe Iuliano appare in questa nuova raccolta di versi ancora più lontano dall'immagine sempre rinnegata di vate. Vita e poesia sono un libro, ma dalle pagine slegate, perché il compito dell'uomo è la ricerca inesausta di un senso nascosto nella banale quotidianità delle cose eppure arcano. Ed è proprio l'atmosfera di sospensione della ricerca, il senso dell'in itinere ad animare queste pagine di poesia matura, che non conosce indulgenze, ma solo ritiri nelle secreto di un'anima che ha compiuto la scoperta della sua unicità attraverso l'intuizione della presenza di Dio nelle lande dimenticate del mondo. L'universo poetico di Giuseppe Iuliano che emerge da queste pagine delicate e consapevoli, urgenti, sussurrate e urlate, è un pullulare di immagini uguali e diverse.


A voler ripercorrere anche per grandi linee la fìtta stagione poetica di un autore, che ama definirsi semplicemente uno "scrittore di versi" e non perde occasione per ribadire la sua natura di semplice "cantastorie di vita/ malata di uguale/ che inseguo a pari/ tra gente comune/ sedotta nel corpo e nell'anima", si ha subito la consapevolezza di una vicenda poetica solidamente intersecata con la vita. Non c'è solo, nei versi di Iuliano, la vita-poesia dell'autore; perché egli, in quanto cantastorie di vita, riassume nella sua vicenda quella dei suoi contemporanei e soprattutto dei suoi conterranei. I molti critici che si sono interessati della sua poesia lo hanno definito, più o meno unanimemente, un "meridionalista"; il suo nome è stato avvicinato spesso a quello di Rocco Scotellaro per tematiche e per il "comune sentire", a quello di Eugenio Montale "per la scelta totalizzante dell'"impoeticità". Ma la poesia di Voli e nuvoli si offre difficilmente ad una prassi critica definitoria. Come si può, infatti, voler imprigionare nell'icona d'una definizione anche immaginifica e suggestiva un linguaggio poetico che si ribella da sé ad ogni schematismo stilistico e persino tematico? Se le prime raccolte poetiche di Iuliano hanno, infatti, una certa connotazione meridionale e mai meridionalista, che può far parlare di suggestioni scotellariane, i versi di Voli e nuvoli conservano del Sud solo le atmosfere terrigene ed il legame sanguigno alla terra-madre che sa farsi matrigna quando l'uomo ne sovverte i ritmi ancestrali.


"La povertà della mia terra/ mi suggerisce/ poche note stonate./ Mai un attimo di contentezza/ solo speranze"- scriveva già in Malinconia di terra, la prima raccolta del '76, sottolineando, da una parte, il negativo di una povertà così reale da risultare sconcertante, dall'altra la condanna ad amare una terra fonte di dolore, che alimenta speranze quasi all'unico scopo di disilluderle all'alba di un nuovo giorno.


Quasi vent'anni dopo, nei versi di Graffiti di terra, della silloge Antinomie e maschere del 1994, le speranze sembrano essersi rintanate nel ritmo acronico d'una "veglia antica": "II Sud resta/ un fallimento,/ un binario tronco/ a suo dispetto/ e riannoda alla cavezza/ stanchi pentimenti/ per un'antica veglia". Tuttavia le immagini di sconfitta, il senso d'una privazione, d'una sottrazione indebita di ricchezze primigenie pervadono il verso e costruiscono la scena scarna d'un Sud, destinato a configurarsi come "binario tronco".


Il Sud di Voli e nuvoli è invecchiato della saggezza del poeta, che, tuttavia, non riesce a liberarsi da una scrittura vinta dalle negazioni: il cantastorie racconta il suo Sud con il dolore asciutto di chi ama qualcuno destinato inesorabilmente alla morte. Anche se non c'è resa nelle sue parole, quanto piuttosto consapevolezza lucida di una realtà che non lascia più spazio alla speranza. "Sud non sei solo un lamento/ voce sdegnata o uggiosa/ strappo di una lagrima/ bugiarda, espediente/ di scena da cavar sussidi./ Sud non sei provato mestiere/ di elemosinare briciole/ faccia che sprezza/ impaccio ed orgoglio./ Sud non sei fastidiosa insolenza/ come zingaro che chiede/ mosca di ogni molestia." L'anafora insistita dei versi "Sud non sei" contribuisce a costruire il ritmo della litania contadina, così che la poesia risuona d'improvviso d'echi atavici, pur misurandosi con la violenza verbale della realtà contemporanea di cui fanno parte i "vampiri mai anemici" e le "sanguisughe ingorde" che sembrano aver bevuto anche il sangue dei versi, nei quali, infatti, la parola poetica si è fatta icona vigile, ma spettrale, incapace di aprirsi nella serenità dei verbi di cui il verso è così parco. Il Sud di quest'ultima raccolta non è, però, immagine poetica. Proprio il tono asciutto dei versi, la scelta d'una lingua concisa, scarna eppure eloquente, lasciano emergere la vivida realtà d'un teatro vivo, in cui si riesce ad intuire il sapore poliedrico del quotidiano. Così nei versi si scorge l'angolo sofferente, ma dignitoso della realtà contadina che si sente defraudata dai padroni di ieri e di oggi, si scorge la quotidianità d'un Sud apparentemente moderno che elemosina attenzione anche tessendo trame menzognere, attraverso la mano tesa d'uno zingaro che infastidisce chiedendo la carità al semaforo, e rinunciando all'orgoglio per qualche briciola di futuro.


La consapevolezza dei problemi del Sud si traduce in insopprimibile bisogno di denuncia, una denuncia che disdegna toni urlati e preferisce l'immobilità pesante di anaforici e apparentemente timidi condizionali, come quelli di Vorremmo dire e di Voi che avete, in cui il disappunto verso i potenti di oggi si iscrive nel solco di toni quasi sussurrati, perché non si ascolta mai chi urla, ma si presta attenzione a chi sussurra con la ripetitività d'una litania, quasi una preghiera, la sua visione della realtà: "Vorremmo dire/ basta a questi quattro messeri/-ma sono tanti, molti, di più-/ di vecchie e nuove nobiltà/ pari ranghi di potenti./ Profeti giornalieri del nulla,/ rubamazzo che hanno reso la terra/ il loro cielo, padreterni per delega/ si godono il tempo senza tempo scampati alla ruvidità di calli/ e al sudore di schiena". Non c'è rancore in questa denuncia intensa a voce bassa, piuttosto un senso di pietà, che si fa compassione rivolta alla terra vittima di questi potenti ottusi, incapaci di distinguere il cielo dalla terra, preoccupati di cancellare dalla memoria altrui i loro calli d'un tempo e il vecchio sudor di schiena, che rappresentano, invece, la loro storia e potrebbero scrivere a caratteri più nitidi la storia di un presente non più cieco, non più scaturito ex nihilo.


La negatività prepotente del presente scaturisce da coloro che ne scrivono le pagine e che sono la fetta più sordida dell'umanità: "vomitatori di parole... mestatori di saliva... prostitute e puttanieri d'alto bordo... farisei in carriera". Questi uomini sono gli artefici di una realtà disegnata da paesi, "i nostri paesi", simili a "serpenti di pietra", immersi "in un sonno profondo", "guerrieri disarcionati": l'immobilismo e l'incapacità di reazione spaventano il poeta del Sud, il cui sguardo, però, si spinge oltre i confini delle sue terre e delle sue memorie patrie, perché egli sente su di sé la dimensione pesante di cittadino del villaggio globale, chiamato a combattere le guerre di tutti e di nessuno, come quella irachena. I versi di Quale guerra offrono uno spaccato di questa appassionata dimensione sociale di Iuliano che anche in questo caso è solo uomo che si interroga tra gli uomini, mai vate, depositario di saggezze e verità: "Fatemi capire/ qualcosa di vero! da tastare con mano sensibile/ senza lingua biforcuta/ infida per ogni malizia./ Guerra non è solo razzo/ uccello di metallo/ che scendendo a picco/ si sparge a grappoli/ come raspi di vite/ e squarcia le viscere di fuoco/ con violenza di tuono./ [...] Guerra è ogni miseria del tempo/ giorno che muore nel giorno/ uomo che strozza l'uguale/ ne saccheggia la casa/ gli insozza la donna/ e sgozza i suoi figli". Definizioni illuminanti, ma non magniloquenti si aprono in versi succinti, sintetici, crudi che sembrano fissare nella staticità del "per sempre" il tempo drammatico della distruzione, della "fuoriuscita" dell'uomo da sé. Ma accanto alla dimensione collettiva che pervade la raccolta, accompagnandosi ad un senso diffuso di sconcerto, che, tuttavia, non sa farsi rassegnata sconfìtta, esiste una dimensione privata, intima, raggiunta attraverso la conquista di un coraggio introspettivo, nutrito da un'inesausta passione del dire, del comunicare, del far dono di sé.

La prima lirica della raccolta è già ambizioso racconto di sé. Ambiziosa ed eloquente sin dal titolo d'ascendenze bibliche, che sono echi dell'imprescindibile ricerca del Dio delle cose, Genesi è il racconto d'una vita che nasce e cresce seguendo ritmi per nulla preziosi. 1 versi sono, infatti, d'una semplicità disarmante, che sembra contrastare subito con il miracolo complesso della vita di cui si fanno racconto. All'inizio il poeta non è che "voce- pianto di vita" che ambisce a raggiungere le soglie d'un Limbo, che è solo strada aperta verso un altro mistero. Il bambino-poeta "radice settimina, esile abbozzo d'essenza, rischio possibile d'eventi" è promessa di "quei giorni a seguire", chiamati a "temprarsi negli anni in ogni porto" che scriveranno la storia e la geografia dell'essere uomo. La parola è il dono che trasforma l'uomo in poeta, ma non in vate, perché la sua parola non ha la consistenza pretenziosa della sentenza di verità indiscussa; è solo voce che sa costruire "favole": "Le favole incontrarono i sogni/ l'anima scese nel profondo/ altro santuario da violare". La parola poetica è, perciò, coraggiosamente distruttrice. Non crea per sé universi e rifugi sicuri, ma ha il coraggio di distruggere e ricreare, come un'araba fenice, che dalle sue ceneri rinasce ogni volta. La parola poetica di Iuliano "Scheggia stelle e sorte" e lo fa in Voli e nuvoli, dove terra e cielo si toccano spesso e non sembrano poi così distanti all'uomo che li vive entrambi.


L'uomo di Iuliano è, infatti, in costante movimento: è un uomo in viaggio, un viaggio che contiene in sé il viaggio di Ulisse e quello terrigeno dell'emigrante senza volto, ma con tanta storia. "Sibili di fischio a intermittenza/ su scambi di lucidi binari/ destini appaiati su rotaie/ innervano stazioni senza orari/ dove si incrociano arrivi e partenze.": c'è l'aria stanca e sospesa in un'attesa senza tempo delle piccole stazioni del Sud in questi versi, ma metaforicamente queste stazioni sono solo le fermate non sempre obbligate di una vita che può scegliere i suoi lucidi binari e guadagnare così i suoi compagni di rotaie, uomini e donne con cui dividere la vita anche solo per un istante magico, quello dell'incontro casuale, che tra arrivi e partenze si consuma nell'incrocio di sguardi consapevoli. Alla stazione della vita nessuno si reca a mani vuote: "Ognuno con la sua valigia,/ deforme per stretta di cinghie/ stipata come cassapanca mai piena/ che segna nello sforzo mani e unghie,/ compie a fatica l'obbligata corsa/ per arrivare in chissà quale dove."- il poeta non ha trovato il suo "dove", non è giunto alla stazione d'arrivo, perché i suoi versi che sanno di uomo trasformano ogni arrivo in una nuova partenza. Ogni partenza costruisce un bagaglio di ricordi, ma "Anche la memoria ha la sua capienza./ Somma di vuoti e ricordi/ cerca avide risposte/ conferme al viaggio/ e spinge l'anima ad aver pazienza/ ad indagare con scrupolo/ ogni senso e fondo di verità/ prossimi al tempo/ che pigramente s'adagia." Il male di vivere dell'uomo-poeta è l'impossibilità di sottrarsi al viaggio, la consapevolezza che ogni partenza costituirà un nuovo inizio, che potrà demolire salde certezze per costruirne di nuove, ancora una volta destinate a mettere in discussione l'uomo.


L'amore e la donna si insinuano con rispettosa e timorosa circospezione tra i versi abitati per lo più dall'uomo, nella sua dimensione individuale e sociale, ma sempre, in definitiva, solo. "Amarsi è un dolce raggiro/ un sottile tranello/ di chiedere e impegnare amore/ di rubare amore./ Anche nel gioco dei sensi/ c'è chi promette e chi giura/ ma poi un cenno d'intesa/ sa quali parole imbastire/ fino al tradimento"- scrive il poeta, con il disincanto di chi ha amato e ingannato e sa che accadrà sempre, di nuovo, perché l'amore è vita e gioca con l'uomo finché l'uomo vive. "Bello l'amore/ che mai sazio corre in ogni dove/ come un guizzo, un lampo/ a cercar complicità/ di parole, sorrisi e nascoste carezze/ che svelano senz'altra malizia/ le possibilità dei sogni,/ farfalle di ogni tempo. Di ogni fiore": l'amore, come le cose belle, non sembra reale. E' un inganno, che vive nella dimensione onirica. Ma è un inganno piacevole, un sogno che l'uomo vuole vivere, accendendosi, insieme ai suoi versi, d'illuminazioni improvvise che s'aprono in carezze nascoste e in sorrisi rubati. L'amore è, comunque, un dono e la donna è un mistero che si svela solo a metà: "Non so quale amore mi darai/ tra smorfie e lusinghe/ che promettono scintille/ come corpi in attrito./ Poi mi accompagni nel profondo/ e rifiuti la bocca come castigo/ di chiesa. Non ti capisco." L'amore tra l'uomo e la donna è un gioco di concessioni e di improvvisi rifiuti. E’ l'incomprensibile imprevedibilità dei rifiuti, del ritrarsi della donna ad accendere nell'uomo-poeta una passione che, nella vivacità dell'eterna schermaglia amorosa, aggiunge consistenza carnale al verso, rendendolo concreto, vivo e pulsante come l'incontro dell'uomo e della donna.


Voli e nuvoli è una raccolta concreta a dispetto del titolo, che lascerebbe presagire una certa eterea evanescenza. Ogni volo parte sempre da una terra che l'uomo-poeta non dimentica, radice di tutte le sue radici, porto al quale far ritorno dopo aver attraversato nuvole e cieli nuvoli. E' solo la concretezza della propria dimensione umana, il senso di responsabilità civile, politica, sociale, individuale a guidare Iuliano in una poesia di conoscenza, in un percorso di "di svelamento" dell'anima messa a nudo dalla drammaticità del reale col quale è costretta a scontrarsi, pagando il prezzo del suo essere viva, hic et nunc. Volare con lo sguardo della memoria costantemente rivolto alla terra-madre consente al poeta d'assaporare la gioia contrita, seria, ma incontenibile dei ritorni. luliano non ha bisogno di costruire con la sua poesia universi alternativi, perché la sua poesia lo guida alla comprensione, all'accettazione ed alla antinomica passione dell'odi et amo nei confronti del reale: così che egli potrà riassumere in questi versi consapevoli e sereni la gioia ed il complesso stupore dell'essere uomo su questa terra: "Qui non tutti vissero felici e contenti./ Per farlo ognuno coltiva un campo/ di desideri" (Morale della favola).


Filippo D'Oria