Giuseppe Iuliano secondo Bàrberi Squarotti e Antonio La Penna


Nell' anno appena trascorso, è stata edita una raccolta di poeti del Novecento - curata da Vittoriano Esposito, per i tipi della Bastogi (Foggia, marzo 2003) -, in cui si offre un’antologia di autori più o meno noti, alcuni celeberrimi, che hanno caratterizzato la cultura italiana ed europea del secolo appena trascorso. Il titolo del voluminoso libro è “L’altro Novecento”, Vol. VII, “La poesia impura”.


                                 La poesia “impura”


Qui, compaiono poesie di Ungaretti, Quasimodo, Montale, Pavese, Spaziani, Merini, Luzi, Pasolini, e insieme a questi autori nomi meno noti, che nel silenzio della loro esistenza dedicano attimi di vita alla poesia.


Il sottotitolo (in particolare l’aggettivo “impura”) è un’evidente risposta polemica indirizzata a Benedetto Croce, o meglio ai suoi epigoni. Infatti, Esposito sottolinea sin dall’ “Avvertenza”: “Sia ben chiaro, innanzi tutto, che il titolo di questa antologia va inteso non in senso morale, ma in senso provocatoriamente letterario, in polemica con tutti coloro che hanno preteso di fare della “purezza” una categoria di valore o, per meglio dire, una cifra stilistica che da sola possa riassumere ed esprimere tutta la poesia novecentesca”. Poesia “impura”, dunque, provocatoriamente è quella poesia fatta dalla ragione, anche con una certa dose retorica, ispirata dall’impegno civile, dal tono moralistico, dall’aspra ironia, dall’esigenza di purezza e di catarsi religiosa. Poesia “impura” significa anche poesia che non guarda al “bello”, che cura più il contenuto della forma. Serve a sottolineare che “nel secolo scorso si è fatta della vera poesia anche al di qua e al di là della cosiddetta “parola pura”, restituendo alla parola comune la naturale funzione di testimoniare la presenza dell’uomo tra le ordinarie vicende della storia”.


Tra questi poeti compare anche il nome di un irpino, Giuseppe Iuliano (Nusco, 1951), una figura discreta della nostra terra, vigile, ma appartata, che ormai da quasi trent’anni (la sua prima raccolta, “Malinconia di terra”, risale al 1976) testimonia con il suo impegno civile e letterario un diverso modo di vedere e descrivere i mali del Sud. Con le sue undici raccolte, quasi tutte di denuncia, egli ha scritto pagine ricche di pensieri sulla questione meridionale, attingendo alla sua esperienza, alle sue letture di Dorso e Rossi-Doria, al dramma collettivo del terremoto, al “mito” dell’industrializzazione e della “Svizzera del Sud”, al dolore per una terra oggetto solo di saccheggio. E questa voce ha trovato ascolto in intellettuali del calibro di Gerardo Bianco (che con imbarazzo ed onestà le ha analizzate, sentendosi continuamente chiamare in causa in quanto politico di questa nostra terra), di Luigi Compagnone (che ha colto l’essenza di un poeta, che utilizza parole vere, “disperate”, e mescola insieme ira, dolore, ironia, disprezzo, amore), ma anche di specialisti. Ad esempio, l’autorevole italianista Giorgio Bàrberi Squarotti ha scritto di Iuliano: “La sua scrittura poetica è fortemente inventiva, ricca di immagini, metafore, ritmi nervosi e scattanti, visioni potenti. Testi come “Notte dei falò”, “Dintorni”, “Fragile chimera”, “Edera spinosa” sono persuasivi, originalissimi”.


Più attenta, invece, al pensiero del poeta è l’analisi di Antonio La Penna: “Il messaggio civile c’è, ed elevato. Lo condivido pienamente. Condivido anche la prospettiva che lei presenta e che ha al centro la democrazia diretta. Ma fra la protesta coraggiosa e i rimedi indicati c’è uno hiatus che lei stesso avverte, di cui lei stesso soffre. Fra disperazione e speranza non c’è ancora punto d’incontro; ma chi potrebbe oggi, dopo tanti naufragi, indicare una nuova rotta?”

Anche La Penna, del resto, come Bàrberi Squarotti riconosce l’energia di questa espressione poetica. Ma si sofferma maggiormente sul messaggio politico – etico – indignato di Iuliano, sulla protesta coraggiosa, sulla disperazione e la speranza. Bisogna aggiungere che la protesta del poeta è ancora più coraggiosa, perché datata già ai primissimi anni ’80, quando il dissenso in Irpinia e nel Sud era veramente limitato a pochissimi.


È anche vero che in Iuliano prevale più la disperazione che la speranza. In queste “invettive liriche” (come le ha definite Antonio Ghirelli) colpisce, infatti, la capacità del poeta a partecipare completamente alle sofferenze dell’uomo del Sud. Ma la sconfitta dell’uomo del Sud è anche la sua sconfitta, sebbene diversa. Il poeta è una sorta di eroe solitario, che sceglie la via difficile dell’esilio in patria. Così, infatti, definisce se stesso: “Estraneo alle corti / ho mani ed orecchi incapaci / ad accordare la cetra e la lira / per fare melodia”. Iuliano è un nuovo Ulisse, che non ha forse la sua Itaca: “Mi trastullo senza malizie / nuovo Odisseo / indifferente ad ogni dio / e naufrago / alzo squarci di vela. / Ma ci sarà una mia Itaca?” (“La mia leggenda”, da “Digressioni di un aedo”, 1999).


Ma al centro della sua opera vi è soprattutto l’Irpinia. Prendiamo, ad esempio, una delle due poesie edite per la prima volta nell’antologia di Esposito, “Dintorni”. Nelle nostre vie dominano il degrado e il silenzio. “Queste vie / fisse al silenzio / vuote nell’abbandono domestico / costretto o indifferente / dalle scelte degli anni / sono piste di cani / che unghiano soli lenti distratti / o latrano a minaccia / dietro femmine in calore. […] / Per queste vie / il silenzio è padrone / è parola disperata / ripetuta a se stessi / ad ogni chiarore del giorno / per chi parla da solo”.


Qui vi è il senso vero dell’esilio di Iuliano, di chi parla da solo, ripete continuamente a se stesso tra l’indifferenza e il silenzio totali. In questa terra vi è solo spazio per andare più a fondo: “Tra queste vie / abbiamo contato gli anni / spighe di ogni stagione / mentre la falce orienta denti aguzzi di lima / giù, tra stoppie più corte, / verso la terra profonda”. Del resto, nella seconda poesia (“Orizzonte”) l’esilio è richiamato esplicitamente: “Sul monte, esilio da scontare in patria, / con anelli di ferro di cronica indifferenza / di perpetuanti regimi / accettiamo la sfida dei venti …”. Ma bisogna anche chiarire che il destino del poeta è il destino di tutti, è il destino di tanti. Forse il poeta ne è più consapevole, o meglio mette sulla carta questa frustrante verità: “Qui / ognuno è un margine d’umanità / che si contenta di girare / a vuoto con fisso cammino / nei suoi confini”.

speranza non c’è ancora punto d’incontro; ma chi potrebbe oggi, dopo tanti naufragi, indicare una nuova rotta?”


Anche La Penna, del resto, come Bàrberi Squarotti riconosce l’energia di questa espressione poetica. Ma si sofferma maggiormente sul messaggio politico – etico – indignato di Iuliano, sulla protesta coraggiosa, sulla disperazione e la speranza. Bisogna aggiungere che la protesta del poeta è ancora più coraggiosa, perché datata già ai primissimi anni ’80, quando il dissenso in Irpinia e nel Sud era veramente limitato a pochissimi.

È anche vero che in Iuliano prevale più la disperazione che la speranza. In queste “invettive liriche” (come le ha definite Antonio Ghirelli) colpisce, infatti, la capacità del poeta a partecipare completamente alle sofferenze dell’uomo del Sud. Ma la sconfitta dell’uomo del Sud è anche la sua sconfitta, sebbene diversa. Il poeta è una sorta di eroe solitario, che sceglie la via difficile dell’esilio in patria. Così, infatti, definisce se stesso: “Estraneo alle corti

/ ho mani ed orecchi incapaci / ad accordare la cetra e la lira / per fare melodia”. Iuliano è un nuovo Ulisse, che non ha forse la sua Itaca: “Mi trastullo senza malizie / nuovo Odisseo

/ indifferente ad ogni dio / e naufrago / alzo squarci di vela. / Ma ci sarà una mia Itaca?” (“La mia leggenda”, da “Digressioni di un aedo”, 1999).


Ma al centro della sua opera vi è soprattutto l’Irpinia. Prendiamo, ad esempio, una delle due poesie edite per la prima volta nell’antologia di Esposito, “Dintorni”. Nelle nostre vie dominano il degrado e il silenzio. “Queste vie / fisse al silenzio / vuote nell’abbandono domestico / costretto o indifferente / dalle scelte degli anni / sono piste di cani / che unghiano soli lenti distratti / o latrano a minaccia / dietro femmine in calore. […] / Per queste vie / il silenzio è padrone / è parola disperata / ripetuta a se stessi / ad ogni chiarore del giorno / per chi parla da solo”.


Qui vi è il senso vero dell’esilio di Iuliano, di chi parla da solo, ripete continuamente a se stesso tra l’indifferenza e il silenzio totali. In questa terra vi è solo spazio per andare più a fondo: “Tra queste vie / abbiamo contato gli anni / spighe di ogni stagione / mentre la falce orienta denti aguzzi di lima / giù, tra stoppie più corte, / verso la terra profonda”. Del resto, nella seconda poesia (“Orizzonte”) l’esilio è richiamato esplicitamente: “Sul monte, esilio da scontare in patria, / con anelli di ferro di cronica indifferenza / di perpetuanti regimi

/ accettiamo la sfida dei venti …”. Ma bisogna anche chiarire che il destino del poeta è il destino di tutti, è il destino di tanti. Forse il poeta ne è più consapevole, o meglio mette sulla carta questa frustrante verità: “Qui / ognuno è un margine d’umanità / che si contenta di girare / a vuoto con fisso cammino / nei suoi confini”.