«Tu che cerchi/ parole soavi/ di pensieri sublimi/ che fanno vibrare/ le corde dell'anima/ rimarrai deluso./ Ti prego, non continuare!» Comincia così la nuova raccolta di poesie di Giuseppe Iuliano, poeta e cantore dell'Irpinia, che è terra dei miei avi e che è stata al centro dei miei interessi di «teatrante».
E' questo il motivo di base che mi spinge a scrivere di questo libro, alla mia maniera, effettuando una sintesi di quei versi che più hanno colpito la mia sensibilità di uomo e di artista. Ho avuto, infatti, l'occasione ed anche la fortuna di conoscere per primo Iuliano e di musicare alcune poesie tratte dalle sue precedenti raccolte, nel 1980. E' l'anno in cui la ricerca della Compagnia del Sancarluccio, protagonista Pina Cipriani, è stata rivolta alla poesia dell'entroterra.
In «Una misura di sale» che fa seguito a «Malinconia di terra», «Il Sud non è forse...» (da cui è stato tratto l'omonimo spettacolo presentato alla Biennale di Venezia '82), «Per non morire» e «Oltre la speranza», Iuliano ha decisamente filtrato le sue sensazioni attraverso uno spirito di osservazione e di analisi più acuta. La poesia ne ha guadagnato in maturità, in vigore, è decisamente più attenta, più reale e provocatoria. Anzi è proprio la «provocazione» che determina la sfida e nello stesso tempo diventa incentivo a lottare lasciando «la pazienza ai deboli». In essa, a mio avviso, si conserva la vera e necessaria chiave di lettura perché la nostra gente «sperduta tra monti e contrade» riesca a trovare la forza di reagire e di sbattere «alla malora i sempiterni feudi». Iuliano avverte che i drammatici momenti vissuti sulle «Terre ballerine» lo sono ancora di più, perché la ricostruzione non decolla, ed al ritardo si aggiunge il pericolo della delinquenza organizzata: «La nostra vita/ è legge del silenzio».
L'acuta sensibilità del poeta trova, tuttavia, motivo per ricordare che «nei sacrifici umani/ solo la speranza non crolla»; la sua rabbia incalza, quale aperta provocazione, il politico: «quando cercavamo lavoro/ garantivi interventi sicuri./ Non siamo ancora occupati.» Poi, l'uomo ritrova se stesso: «Donna/ a sera, diventi desiderio./ Il profuma di terra/ come filtro d'amore/ riempie i sogni e i sensi/ di impenetrabili magie/.» E' un momento di serenità, quella stessa che ha portato il Nostro a creare il suo nucleo familiare e a dedicare la sua ultima fatica alla piccola Annalisa, che egli apostrofa «mia tenera radice».
Il poeta è padre, il padre è poeta; la sua arma di lotta: la poesia! E' una scelta giusta, onesta come lo è la vita di Peppino Iuliano in rapporto al mondo che lo circonda. La conclusione è un ennesimo e costante incitamento ad uscire allo scoperto perché
«non è più tempo/ di pazienti rimandi/ e di suadenti parole/ per sanare i continui bisogni». Ancora una volta Iuliano è la voce e la coscienza della sua gente. L'umanità e il temperamento gli assicurano la forza e la certezza di affrontare una realtà sempre più compromessa da rimandi o ritardi, da inganni o elemosine, da mafia o camorra; contro questi mali l'amore per la sua terra si fa ribellione, denuncia e diventa rivolta culturale. Il Sud ha bisogno di uomini come lui se vuole rinascere e non essere più «terra d'esproprio».
Il singolare viaggio intrapreso nel mondo lirico di Iuliano non si esaurisce nella fantasia o in una sua intima e scontata bellezza linguistica o di temi, ma trova la sua continuità nella vita. In questa consapevolezza ripeto a me stesso un passo del prologo: «Se i ceppi stringono/ il corpo ferito/ e soffri pene di libertà/ ascolta la voce./ Siamo uguali».
Franco Nico