Digressioni di un aedo


Di gran parte delle liriche è protagonista l’io biografico, che si autoreferenzia, per dipanarsi poi in referenti di varia incidenza in un intreccio di rimandi e ritorni, che ricostruiscono e rammemorano il curriculum umano e poetico di un uomo, che ha vissuto e vive un rapporto mai subordinato al contesto ambientale e sociale, connotato da un taglio linguistico duro, aspro, secco, vibrante per cui la stessa poesia non si caratterizza per accordo d’armonia di cetra o lira, una nota costante nella ricca e sofferta produzione iulianiana, ben qualificata dalla critica militante e non.


L’incipit del realismo lirico mette in scena l’esperienza memoriale di un’infanzia vissuta come una primavera dolorosa, che ha assaporato amarezza di sogni, “sofferte rinunce”, come povero in un “mondo di poveri”, che non ha rimosso dal cuore i bocconi di cicuta, simboleggiati da quei “tanti sassi duri”, non sciolti dalla pioggia del correre del tempo, che insieme con la morte possiede la forza di estenuare sbiadire e cancellare. Se la poesia è anche esperienza della memoria, è utile che essa riacciuffi quei momenti particolari, che hanno inciso spazi e tempi di una stagione del percorso esistenziale e li traduca in immagini che ci rendono presenti in perpetuum.


Il rapporto con il paese non è idilliaco. Eppure Nusco per la posizione geografica guarda dall’alto come una orgogliosa castellana sospesa tra cielo e terra, l’uno ricco di stelle, che accendono fantasie di amori e viaggi, l’altra digradante a valli tributarie di mitiche sorgenti, di lussuria di verde e di solenni solitudini. In questo luogo divino e specola del mondo il poeta si sente in esilio, un prigioniero in soggiorno obbligato. Vive in un’antitesi stridente, in una situazione ossimorica strana. L’alta cupola del cielo è una cappa; l’aria leggera è soffocante, ”stagnante”; la luce, così inondante, “acceca e non illumina” e “ aggiunge altro buio”; i monti appaiono come persone uggiose, intriganti, spione e insolenti, che fiaccano la sua resistenza, appesantiscono e rendono più stanca la monotonia stessa della vita, i cui occhi come da una grata o un cancello vedono nel pur lontano orizzonte un limite, nelle case sottostanti “tanti puntini bianchi”, nei paesi, disposti a filari, attonite e identiche realtà, immerse “nel nulla”. Questo mondo immobile, statico, questo sconfinato silenzio è indice di uno stato di abbandono, di fatale rassegnazione. Di questo degrado sono consapevoli nella indifferenza generale soltanto “il bastione ”del diruto castello e il poeta, che di fronte ai campi lasciati incolti, agli orti invasati da erbacce, alle vigne, ieri “ ara votiva degli avi”, oggi tignate e malate per incuria, alla mancanza degli innesti, alla rimozione di confini e steccati di canne, che definivano proprietà e raccolti, difesi contro il malocchio da stracci di spaventapasseri, “lari protettori”, di fronte a colpe, talvolta ingiuste, da pagare, preso da iroso sdegno, da impeto istintivo, vorrebbe “ sciogliere un canto ribelle”, con cui sconvolgere il passato e il presente, il vecchio e il nuovo, tramutare come per incanto l’inerzia e la rassegnazione, la stagnazione e la passiva fatalità in dinamismo, in forze attive e operose, creare vita contro il deserto, attivare approdi al paese , ritorni e non l’esodo continuo, vedere case popolate e non vuote , campi curati e feraci come un tempo e non sterpaglie e macchie spinifere, vigne “benedette e battezzate dal verderame” e non selve selvagge, un groviglio di rami che si affastellano e si attorcono come serpenti, non l’edera, l’unica che ha fissa dimora e abbraccia le mura, ma nidiate di bimbi, intenti ai giochi, di giovani , uomini e donne a lavorare la terra, curare le semine, i boschi, il bestiame, i raccolti, tenere vivo il focolare, raccontare nelle sere d’inverno “ l’epica di storie e leggende” del proprio paese, per ritrovare le ragioni dell’identità e della continuità a saper portare “il testimone della vita”, per far sì che esso non sia mai più un “ da qui / si parte / non si arriva”, un luogo segnato da due cose certe, il nascere e il morire, un immenso vuoto, un monotono succedersi di fatti, che producono eterna noia, la spossatezza esistenziale, per cui lo stesso poeta avverte di avere pieni “di terraglia / i vuoti dell’anima”. Appena, però, egli tenta di elevare il canto delle memorie, ricercare in “nidi di pietra” radici e affetti, ricostruire le ragioni dei torti e delle ingiuste colpe, le ingiuste penalizzazioni sia comunitarie che personali, la reazione, la congiura punitiva arriva palese o sotterranea. Ma la voce del poeta non ha paura “dei lupi”, dei tirannelli, degli angeli “ sterminatori”, dei “coronati” dal doppio volto e linguaggio “ abili al gioco di mano / all’intrigo / al pollice verso”. Persuaso della forza invincibile della poesia, ne fa arma di battaglia contro ogni “vampata di lupara”, ne fa strumento di replica con “grandine e tempesta di giambi".


Quel momento di sognata riconciliazione, di auspicata alleanza, di interruzione dello stato di prigionia nella stessa patria governata da eterni regimi, è stato un pio sogno per il poeta, che si crea un varco d’uscita con la fantasia contro gli stessi amici che lo esortano a restare in nome dei ricordi, degli affetti domestici, dei cari defunti. Il grido è forte e straziante, carico di aggressiva, imperiosa intensiva emotività : “lasciatemi fuggire”. Inizia il cammino del vate senza una missione di pace o di guerra, un vate anonimo, sconosciuto “ senza serti di ulivo / né segni di gloria”, un poeta che si dichiara “libero di evadere / e di sciogliere il canto ”a suo piacere, perché essere poeta significa “vivere l’illusione e conoscere i sogni”; godere della libertà della fantasia, che consente, chiusi gli occhi, di vedere altre realtà, come le varietà delle gradazioni del verde dell’Amazzonia, “ sculture di ghiacci eterni”, “ mondi stellari”,” misteri del Tibet o dell’India”. E’ questa una “virtù effimera”, ma reale, concreta all’istante. Parte come un “ pellegrino”, però senza saio e cilicio, perché non ha colpe da farsi perdonare; parte neppure come un trovatore o un giullare, perché non ha come mete corti o castelli, ove cantare eroiche virtù, teneri amori, incantevoli bellezze, sospiri e languidi amori, avventure; parte neppure come un guerriero con la spada benedetta, votato al sacrificio per la Croce e la liberazione del S. Sepolcro. Il nostro si finge di percorrere “segmenti di Grecia”, “si trastulla in novello Odisseo”, che fa naufragio. .Voleva “varcare la soglia / per provare la sorte”. Si ritrova “ naufrago”, né perché perseguitato da un dio, né per colpa del morboso amore per Itaca . Nusco non è Itaca.


Però è il suo punto di partenza. Resta come immagine nascosta. Il “naufrago”,che innalza “squarci di vela”, è cittadino del mondo e se ne serve indomito per viaggiare “verso un’isola /mondo / luogo di misfatti, che fra le più vergognose atrocità - Auschwitz, Dachau, Treblinka – simboleggia la bestialità inaudita di quanto possa la ferocia umana, rosa da tarlo svastico, da un virus, che la trascina ad autodistruzione. Perciò il poeta, che ha un’epica nera da raccontare, dice di aver posto il suo linguaggio a forgia, incudine e martello, per non essere convenzionale, di averlo battuto e affilato, per renderlo coltello, spada, vetro da taglio, scheggiato, per infliggere colpi alla storia, maestra di menzogne, all’ enfasi della “civiltà globale”, altra rovinosa macchinazione dei poteri forti, che schiacciano la già misera umanità del mondo, creando “povertà di nuove miserie”. Per questo motivo il vate “con esperienze del mondo”, il troviero “ con mandola a tracolla”, con ciotola e orcio, libero da condizionamenti, non solo è implacabile con la poesia manieristica, arcanista, romantico - piagnucolosa, ma anche con i soliti ripetitori e programmi sempre uguali, mettendo in gioco altre “partiture”, “nuove canzoni”, i cui protagonisti non sono belle donne e prepotenti signori, non “fole celie e consolanti amori”, non “ un canto riverito / che appassiona umili e potenti”, “ non storie d’amor cortese e passione”, ma direi “stracci di vela”, che rappresentano “scorie di umanità”, gli esclusi, i vinti dal destino, gli emarginati, gli schiavizzati, le razze inferiori, i nuovi poveri, gli angariati, gli sfruttati, i perseguitati, gli improtetti, gli abbandonati, le vittime degli odi razziali, gli estirpati dalla loro terra, le tragedie delle guerre, gli emigrati per fame, il commercio ignobile di bimbi, di donne, di uomini, il nuovo mercato degli schiavi. Sono questi i temi dolorosi che tormentano la coscienza, la fantasia poetica , la scrittura e lo stesso tessuto linguistico di Iuliano, che riversa bile, sputa fuoco, rivendica i valori della religione, della patria, della famiglia; della dignità del lavoro, del patrimonio morale della

terraglia / i vuoti dell’anima”. Appena, però, egli tenta di elevare il canto delle memorie, ricercare in “nidi di pietra” radici e affetti, ricostruire le ragioni dei torti e delle ingiuste colpe, le ingiuste penalizzazioni sia comunitarie che personali, la reazione, la congiura punitiva arriva palese o sotterranea. Ma la voce del poeta non ha paura “dei lupi”, dei tirannelli, degli angeli “ sterminatori”, dei “coronati” dal doppio volto e linguaggio “ abili al gioco di mano / all’intrigo / al pollice verso”. Persuaso della forza invincibile della poesia, ne fa arma di battaglia contro ogni “vampata di lupara”, ne fa strumento di replica con “grandine e tempesta di giambi".


Quel momento di sognata riconciliazione, di auspicata alleanza, di interruzione dello stato di prigionia nella stessa patria governata da eterni regimi, è stato un pio sogno per il poeta, che si crea un varco d’uscita con la fantasia contro gli stessi amici che lo esortano a restare in nome dei ricordi, degli affetti domestici, dei cari defunti. Il grido è forte e straziante, carico di aggressiva, imperiosa intensiva emotività : “lasciatemi fuggire”. Inizia il cammino del vate senza una missione di pace o di guerra, un vate anonimo, sconosciuto “ senza serti di ulivo / né segni di gloria”, un poeta che si dichiara “libero di evadere / e di sciogliere il canto ”a suo piacere, perché essere poeta significa “vivere l’illusione e conoscere i sogni”; godere della libertà della fantasia, che consente, chiusi gli occhi, di vedere altre realtà, come le varietà delle gradazioni del verde dell’Amazzonia, “ sculture di ghiacci eterni”, “ mondi stellari”,” misteri del Tibet o dell’India”. E’ questa una “virtù effimera”, ma reale, concreta all’istante. Parte come un “ pellegrino”, però senza saio e cilicio, perché non ha colpe da farsi perdonare; parte neppure come un trovatore o un giullare, perché non ha come mete corti o castelli, ove cantare eroiche virtù, teneri amori, incantevoli bellezze, sospiri e languidi amori, avventure; parte neppure come un guerriero con la spada benedetta, votato al sacrificio per la Croce e la liberazione del S. Sepolcro. Il nostro si finge di percorrere “segmenti di Grecia”, “si trastulla in novello Odisseo”, che fa naufragio. .Voleva “varcare la soglia / per provare la sorte”. Si ritrova “ naufrago”, né perché perseguitato da un dio, né per colpa del morboso amore per Itaca . Nusco non è Itaca.


Però è il suo punto di partenza. Resta come immagine nascosta. Il “naufrago”,che innalza “squarci di vela”, è cittadino del mondo e se ne serve indomito per viaggiare “verso un’isola /mondo / luogo di misfatti, che fra le più vergognose atrocità - Auschwitz, Dachau, Treblinka – simboleggia la bestialità inaudita di quanto possa la ferocia umana, rosa da tarlo svastico, da un virus, che la trascina ad autodistruzione. Perciò il poeta, che ha un’epica nera da raccontare, dice di aver posto il suo linguaggio a forgia, incudine e martello, per non essere convenzionale, di averlo battuto e affilato, per renderlo coltello, spada, vetro da taglio, scheggiato, per infliggere colpi alla storia, maestra di menzogne, all’ enfasi della “civiltà globale”, altra rovinosa macchinazione dei poteri forti, che schiacciano la già misera umanità del mondo, creando “povertà di nuove miserie”. Per questo motivo il vate “con esperienze del mondo”, il troviero “ con mandola a tracolla”, con ciotola e orcio, libero da condizionamenti, non solo è implacabile con la poesia manieristica, arcanista, romantico - piagnucolosa, ma anche con i soliti ripetitori e programmi sempre uguali, mettendo in gioco altre “partiture”, “nuove canzoni”, i cui protagonisti non sono belle donne e prepotenti signori, non “fole celie e consolanti amori”, non “ un canto riverito / che appassiona umili e potenti”, “ non storie d’amor cortese e passione”, ma direi “stracci di vela”, che rappresentano “scorie di umanità”, gli esclusi, i vinti dal destino, gli emarginati, gli schiavizzati, le razze inferiori, i nuovi poveri, gli angariati, gli sfruttati, i perseguitati, gli improtetti, gli abbandonati, le vittime degli odi razziali, gli estirpati dalla loro terra, le tragedie delle guerre, gli emigrati per fame, il commercio ignobile di bimbi, di donne, di uomini, il nuovo mercato degli schiavi. Sono questi i temi dolorosi che tormentano la coscienza, la fantasia poetica , la scrittura e lo stesso tessuto linguistico di Iuliano, che riversa bile, sputa fuoco, rivendica i valori della religione, della patria, della famiglia; della dignità del lavoro, del patrimonio morale della civiltà contadina e artigiana di ieri contro la “poca incerta fede “dell’oggi, gi, la cultura di un laicismo intemperante, il mercantilismo e la mercificazione della vita stessa, ridotta a cosa, a oggetto nel segno del culto del denaro, la nuova e maledetta divinità, che fa dell’uomo un lupo per l’uomo a totale rimozione dell’umanista, del dotto, del filosofo, del poeta, soppiantato dal tecnico, dallo scienziato, dal genetista, dal robottismo, per cui la stessa anima è un congegno e l’uomo una macchina che controlla passivamente “ i tempi delle macchine” che scrutano cieli e abissi. Paga il progresso che gli ha tolto mente e cuore. Il poeta di fronte a questo tipo di uomo disumanizzato, innaturale grida: “ Alla natura /restituiamo scorie di umanità”. E come frusta “la morta poesia”, che nasce da “un’anima di creta ”, così punge con acuti aghi il culto del divismo, l’omologazione culturale, l’arrivismo, l’etica stucchevole, il bigottismo, la convenzionalità religiosa, la ritualità bolsa, l’ostentazione.

Il poeta in alcuni elaborati ci offre specchi a confronto, immagini di una scottante verità etico-storica, che inducono a riflettere sulla mutazione dei sentimenti, degli stati di coscienza, dei rapporti con la trascendenza, delle relazioni sociali. Quando pone l’accento sulla “ poca fede”, il dato non riguarda solo la crisi delle istituzioni, degli organismi sociali, ma anche la stessa interiorità dell’uomo, lo sfaldamento della psiche, che è spersa nel labirinto del “nulla”.

Le processioni di oggi non sono quelle di ieri, vissute con intensità di fede e purificazione: “ File di lanterne/ cantavano eredità di confratenita… Lucciole votive/ illuminavano vicoli di caligine… Nella complicità del buio/ ognuno confessava a mezza voce/ peccati e miserie di Passione/ bestemmie di povertà e sudore di sangue… supplici cori al mistero del perdono”. Questo “rito non sconta più affanni… Si mostra stanca liturgia” tra fumi d’incenso.

Il Venerdì Santo, giorno di “forzato digiuno”, di silenzio di morte, del sonno delle campane legate, richiamo di un altro Calvario “di croci innocenti / ufficialmente scordate da tempo” sia “ da Dio che dagli uomini affaccendati”, l’Irpinia straziata dal terremoto del 23 novembre 1980 e per esso volutamente calunniata e diffamata come ladra, non produce l’emotività lacerante di quella di ieri, perché è fittizia, scialba. E’ spettacolo! E’ becero folklore!

Anche la stessa Pasqua è “una memoria sbiadita di cose/ stanca di prove scarica di corda”. E’ apparenza di fede.

Si vive nel gorgo della civiltà delle immagini, delle vistose apparenze. C’è da parte dei giovani il rifiuto del passato; ma non c’è neppure un futuro; si preferisce tenere la valigia chiusa e vivere “a balia dei pensionati”. Ieri si emigrava per fame e si disgregavano le famiglie e si spezzavano le radici. Si sfidava il destino. Si spezzava la catena della schiavitù e si rovesciava “l’ordine di arrivo ”. Oggi però non si emigra, ma si parte da uomini liberi e non più con “ miserie di cafoni” e “ con la morte nel cuore”, stranieri in paesi europei per lingua e diversità di razza. Eppure, c’è tanta disoccupazione, tanta rassegnazione, tanta retorica nelle promesse, tanto inferno di vita, che si sconta sulla faccia della terra per la pratica del “mercato di lavoro nero”. Il poeta, preso da giusto sdegno, vorrebbe scuotere, strappare la maschera a questa Europa, disumana nei fatti e democratica in apparenza con “civiltà di carta”, scritta soltanto nei trattati. L’impegno civile e patriottico, che scuote la sensibilità del lettore, si fa accorato e vibrante, allorché si esprime rabbia contro i denigratori ( forse i leghisti), che nei colori del Tricolore leggono spregevoli significati, nel bianco la resa, nel rosso la vergogna, nel verde la collera. Al poeta non resta che solennizzare l’eroismo dei giovani morti della terra Irpina e di tutto il Sud per la difesa e l’unità della Patria e di stigmatizzare quest’Italia che ha “collezione di morte parole/ da farsi perdonare”. Con sarcasmo egli apostrofa coloro che ritengono il drappo una “pezza un drappo d’infamia” e invita a contare “quanti morti/ sono cenere di focolai spenti/ nell’odiato malvagio Sud”.

Il nostro Femio irpino non certo “bocca divina”, canta come il poeta greco “i guai”, non mandati da Giove, ma creati dagli uomini, tiranni e tiranelli di turno; canta le sventure degli oppressi, dei nuovi schiavi, dei dimenticati, dei cristi perseguitati dalla malasorte e dalla brutalità mercantile. Quando si toccano le corde della cetra che lamentano il dolore dei vinti e dimenticati dallo stesso Dio, dei bambini sfruttati, della mercificazione delle donne e dell’amore, l’ira brucia nel cuore e la protesta si accentua e si fa tempestosa contro il “mercato di lavoro nero”, contro “il nuovo mercato degli schiavi”, gente che vede il Mediterraneo e l’Europa come il favoloso Eldorado, il vero paradiso, mentre essa rischia non solo di essere buttata a mare come “cosa persa” dai nuovi e spietati mercanti, ma viene esposta come “campione senza valore all’ingrosso o al dettaglio”. Acuminate frecciate il poeta lancia contro “i signori della terra”, che hanno la bocca piena di giustizia, mentre nella sostanza considerano queste ondate migratorie, frutto dei disastrosi conflitti nel mondo balcanico, come “straccioni rifiuti/ cassonetti di ogni fastidio”, per cui il Mediterraneo aggrega “odi e gemiti di popoli”.

A difesa di questa gente umiliata, derisa, spogliata e venduta il poeta leva la sua voce irosa e pungente contro “sensali esattori ruffiani”; contro “potenti prepotenti/ cacciatori di affari”, contro i frodatori e “papaveri di ogni terra/ semenza di stravizi ”, seduttori col denaro, profittatori delle miserie e dei sogni ingannatori di tante fanciulle immesse nel mercato della prostituzione nella civile Italia e nell’Europa senza frontiere. Spettacolo turpe e miserabile in paesi cattolici e protestanti. Ove si commercia pure l’anima e dove le Istituzioni non vedono, dove la Giustizia non è più “la spada di Temi ”, è solo “un nido vuoto” con toghe messe “all’asta”. In questo mondo che vive nel culto dell’effimero, del precario, nella ricerca furente di quotidiani paradisi, nella rapina del potere e della notorietà, che posto può avere il poeta, che valore e funzione la poesia? Il poeta, anche se non è più ritenuto “veggente”, è il solo che personifica la libertà, che non conosce compromessi o condizionamenti, che non si assoggetta al potere e dà voce agli “scarti ” della società, agli anonimi, ai figli di nessuno, ai poveri disgraziati, a quei morti senza monumenti, a quegli emigranti, che non hanno conosciuto letizia di banchetti, che non hanno avuto legna per accendere il fuoco, ai quei poveri coloni e contadini, che hanno conosciuto solo quaresime e hanno “le facce accecate di sole” e “stanche monotone stagioni” e per ricordo un solo giorno di baldoria, il carnevale. Di questa razza sfortunata è cantore il nostro Femio, non di eroi e principi, di battaglie e guerre, di dame e dee, di cortigiane e maghe. Il Nostro protesta e accusa, vitupera e esalta, restituisce dignità e rispetto ai deboli, agli analfabeti, ai vivi che non vivono. Per costoro scrive e sogna ,parte e ritorna, fugge e approda, getta l’ancora là dove c’è innocenza di vita, natura “inebriante”, chiarore di sole, “le nuove albe”. Ma l’aedo non può essere contento di questa nuova terra, che è sempre un’isola, che significa solitudine, lontananza dal consorzio umano. E si inventa per viaggiare un altro amore, per dare significato alla sua vita, che non può essere vissuta in solitudine, che è il male di tutti i mali, cerca la sua Melisenda, che è la poesia, la sola che gli dà conforto, che lo rende muto o ribelle, ma la sua Tripoli, il suo dannato amore, è Nusco, la cui presenza diventa essenziale, perché senza Nusco non sarebbe stato poeta, non avrebbe senza questo ambiente e contesto potuto concertare “rapsodie rusticane”, da cui parte per farsi alfiere e portavoce dei paria del mondo. Nella figura del troviero Tebaldo di Champagne “cavaliere senza scorta”, senza codazzo, si ravvisa il poeta nuscano sia per analogia dei luoghi sia per temperamento solitario. Il poeta odierno non è una cicala, che “accorda versi e note”. Se non è il cieco e profetico Omero, divino per potenza di canto, per vigore di parola e voce scuotente, capace di penetrare, interrogare e “scrutare labirinti di tenebre/ fondali distanti secoli di storia” e unire le storie grandi e piccole di uomini e divinità e consegnarle alla grande memoria umana, ha, tuttavia, anche se con voce “arrochita” e con occhi “ciechi” alla luce, il dovere di testimoniare il suo tempo e denunciarne “la convenienza”, i nuovi falsi culti di eroine ed eroi dello spettacolo sportivo, canoro e televisivo, la nuova e deleteria mitologia del denaro, un vero delirio di questa società consumistica, squarciare i veli della ipocrisia e disumanità dei nostri giorni, protestare per gli indifesi e gli anonimi, viverne i drammi e personificarne le voci. Se il poeta, oggi, non è più ispirato da una divinità per poter “guardare dentro/ il buio, la vita ed oltre”, è abilitato ad essere la voce che rompe il silenzio degli esclusi e a spezzare la schiena ai nuovi mercanti di anime derelitte in questa strana babilonia “di amore vita e morte”. Se la poesia è la libertà assoluta, notevole è la sua funzione come memoria di conoscenze, di esperienze e come segno che strappa al tempo lembi di vita e ne ferma l’istante come sopravvivenza e incide vie per il futuro. Non è condivisibile l’idea che la poesia sia flebile voce di cicala, che nessuno ascolta, ma nessuno ha saputo svelare il significato profondo e misterioso di quei suoni, che sono e forse resteranno indecifrati, finché non si rimuove il simbolo della monotonia oziosa. Quella litania che porta messaggi e miete i giorni è come la poesia che precorre e immette nel futuro con quei suoni non colti dal corto udito dell’uomo . E’ poesia anch’essa che ferma il sole sul ciglio dell’orizzonte. E’ quella stessa che ferma la morte che tappa la bocca dell’uomo e promette la luce della resurrezione ed è sempre la stessa che inventa, apre la finestra alla vita, anche se sembra incerto il palpito nuovo della speranza. E Iuliano sa che attraverso le tante mutazioni è diventato la bella farfalla, il poeta, che oltre a costruire altra realtà naturale e umana, che ha sede nell’utopia, fragile ma necessaria, è presente là dove i poveri scontano con sofferenza l’egoismo del progresso, dove l’atrocità e la violenza segnano gli odi razziali, dove la pulizia etnica produce olocausti o esodi di massa, dove ci sono case che bruciano, fosse piene di cadaveri, terra bruciata da stermini, dove i bambini hanno il viso della morte e le donne hanno calvari da nascondere e i vecchi disperate solitudini da testamentare. Iuliano non è solo la voce di Nusco e dell’Irpinia che non parlano, ma di tutti i luoghi del mondo, ove si calpestano i diritti della dignità, si affamano le genti, ove si fa mercato di carne umana di qualunque razza, fede e colore. Nella silloge “Digressioni di un aedo” c’è del locale e dell’universale, c’è il passaggio da una cultura ad un’altra, da un mondo monolitico che s’è frantumato e disperso ad uno dal volto non ancora umano, dalla perdita di radicati valori morali, etici, religiosi e sociali al culto spettacolare di nuovi idoli, di nuove divinità, di una smodata emulazione sociale, di nuovi parametri di misura dell’uomo, basati sull’avere e sul potere. C’è “Pluto” al posto di Dio, la monetocrazia al posto dell’umanista, la discoteca come fuga dal quotidiano e il paradiso nell’ecstasy, la trasparenza e la seduzione al posto del pudore, sedere come potere, la corsa “al parlamento d’oro”, il capitale, il tecnocrate, il banchiere, i “grafici ”della borsa, l’occhio alle statistiche, al mercato. E l’uomo dov’è ? E’ nella poesia che parla un linguaggio diverso da quello della moda imperante dell’”usa e getta”, è nella immaginazione poetica, che si traduce nel credo dei valori alti, che assicurano la continuità dell’essere, del cuore sulla macchina, della singolarità sulla massa, dello stato emotivo sull’aridità del calcolo. Tutto il bene, se c’è, e il male di questo secondo Novecento è nel dettato-denuncia, di cui si è fatta una modesta parafrasi.


Al di là della sostanza etico-morale, civile e religiosa, patriottica e politica, sempre tesa e inquietante, si ravvisa una smaliziata tecnica dei mezzi espressivi, una pregnanza di immagini dai forti colori, uno stile del tutto personale, spoglio di fronzoli. Anche i mutui o prestiti vengono compenetrati, vissuti, ricreati e caricati di senso proprio. Una operazione questa che riesce soltanto ai poeti di spiccata sensibilità, di grande estro, di straordinario potere creativo. La lingua è piegata e torta ai moti del sentimento, della passione. Il lavoro della lima è frutto di letture e riletture, della perizia e della pazienza del sarto, che ritaglia e ricuce, corregge e perfeziona, senza mai conseguire la piena contentezza del prodotto.


La perfezione in poesia è rara, è una eccezione. Le revisioni o le correzioni ne costituiscono la prova. L’esecuzione è arte incerta. Non basta l’estro, è fondamentale anche l’esperienza di laboratorio. Se il lettore si dota di “mille occhi ”, quando si dispone a leggere, può vedere anche in questo libro l’uso della polisemia, dell’anafora, della climax, dell’anastrofe, della epanalessi, del frequente asindoto, della sineddoche, dell’animismo naturalistico, della sinestesia, dell’assonanza o consonanza, dell’inarcatura, della metonimia, della deissi ecc. Si nota l’uso di varietà di metro, di spazi bianchi fra le strofi.


In alcuni lavori prevalgono i versi brevi e la paratassi e si ottiene una tonalità più vibrante, un ritmo più aggressivo. In quelli ove si registra l’ottonario, il novenario, il decasillabo, l’endecasillabo il tono è più lento, armonioso, piacevole. La mescolanza di versi lunghi e brevi crea attrito, dissonanza, che riflettono l’esacerbata tensione spirituale, il senso di una malgovernata insofferenza, che si riversa nei fattori del ritmo.

 

 

                                                                                                                                                                                                                           Pasquale Martiniello