Antinomie e maschere

 

 


Giuseppe Iuliano è uno scrittore di cristallo. Ha trasparenze senza fondali il suo animo che guarda sempre al sole e tiene a dispetto il sottobosco ammuffito. E' cristallo duro come la roccia dei suoi monti, così è nato, così è cresciuto, senza mai farsi scalfire. Ma non è rigido al mondo, poiché sulle sue mille paretine si rifrangono colori e forme diverse, e s'internano, aggrovigliandosi e sgrovigliandosi in immagini mediterranee, che sanno di scene antiche, di antichi cori. E poi, dopo i venti bassi o alti della sera, torna alla sua primitiva limpidezza per esporsi all'indomani alla luce del nuovo giorno, ancora un nuovo giorno da vivere sulle cime dei monti, sfaccettate, dalle quali il mare è lontano, con le sue mescolanze e le sue corrosioni. Quando, infine, le tensioni interne diventano insostenibili, ecco che esse si scaricano nel taglio affilato che incide a linee di fuoco tutto il superfluo ed il turpe.


Giuseppe Iuliano è un coreuta del dolore. Quello primigenio della provincia, immutato da secoli, vilipeso e deriso fuori dal nido, profondo e contorto come le radici di una quercia annosa. E' un coreuta che canta in disparte, intonando i ritmi della sua gente, facendosi omnia omnibus. Ha ben poco di intrigante e dolce la sua voce, piuttosto sono grida che attraversano e pietrificano la desolazione, lungo i sentieri di una storia minore, di una natura arroventata dall'exodos e dal nostos. Non hanno costumi di seta né sandali dorati, recita sulle macerie e sui bronchi nella lingua terrosa dei contadini del Sud. In lui si raccolgono rabbie e lamentazioni sempre vecchie e sempre nuove, ma che non si vorrebbero sopravvissute in una tragedia che sembra non avere epilogo. Giuseppe Iuliano è un Tersite sannitico. Sono brutte favole le sue poesie, anzi non sono affatto favole ma ossuti graffiti incisi sulle carni e sul cuore. Spesso sui modelli di Pasolini. Non c'è ricerca formale per così dire alessandrina, c'è una sorta di emorragia di parole-cose, le più comuni, quelle comprensibili da tutti, da tutti usate. E' stato da sempre così, è senza scuola, senza ascendenze teoriche, con dentro una forza vitale che fustiga padroni e servi dell'equivoco, del tradimento, della falsità morale (urbem defricuit, diceva Orazio del campano Lucilio). Ben poco c'è quindi di meditazione letteraria, e la ricezione del lettore è amara eppure istintivamente simpatetica. La sua è una voce che insiste senza blandizie, da anni, e, come nel caso del Tersite omerico, solo a guerra finita potresti accorgerti che aveva ragione. E che la guerra della sofferenza finisca è la sola utopia che anima i versi del poeta, irpino quant'altri mai.


Anche Giuseppe Iuliano approderà, prima o dopo, ad una poesia più meditata, lirica. E allora sicuramente, come già a partire da questa raccolta, affioreranno gli impasti sentimentali del suo animo, della sua esistenza ricca e generosa. Avremo così la piega della parabola che non più s'inarca, ma tende ad adagiarsi su toni sussurrati, e "alate" saranno le sue parole. Non per questo, però, rientrerà la sua vocazione di poeta civile, o meglio, come lui stesso si definisce e noi preferiamo, di "cantastorie di vita malata di uguale".

 

 

                                                                                                                                                                          Romualdo Marandino